A legittimare il primo posto in classifica del Napoli, un calcio a tratti entusiasmante, al contempo, estremamente solido ed efficace. Una svolta pragmatica, quella di Luciano Spalletti, costruita con grande intelligenza tattica, per cui la squadra partenopea quest’anno ha assunto un atteggiamento un po’ più prudente.

A vederli, infatti, gli azzurri accettano di correre meno rischi, puntando molto sul gioco reattivo e gli attacchi in transizione. Attestando, dunque, il baricentro nella propria metà campo ad un’altezza media, senza tuttavia schiacciarsi troppo verso Meret.

Una gestione lungimirante della difesa posizionale, anche per lunghi tratti della partita, mai davvero passiva. Andando talvolta in apnea al cospetto degli avversari, ma gestendone le sfuriate. Costruendo così le premesse per vincere, sfruttando una condotta guardinga.

Napoli predisposto alla sofferenza

In pratica, il Napoli accetta di soffrire in certi frangenti pur di schermare le ricezioni tra le linee e indurre all’errore chi attacca. E dopo ripartire, centralmente o sulle catene laterali, usando tutta la profondità concessa dalla controparte.

Già adesso, d’altronde, capitalizza il controllo del possesso per sottrarsi al pressing uomo su uomo oppure modulando ritmo e intensità le volte che ha bisogno di recuperare il fiato con il pallone tra i piedi.

Non c’è niente che racconti meglio la nuova identità del gruppo guidato da Spalletti della fase offensiva sviluppata attraverso tempi di esecuzione ed occupazioni degli spazi magistrale. Specialmente quando gli avversari tendono a concedere ancora maggiori porzioni di campo alle proprie spalle.

Del resto, la pressione alta funziona solamente al cospetto di squadre con gravi difficoltà in costruzione. Invece gli azzurri padroneggiano il palleggio.

Anzi, quel contesto funzionale a controllare l’attrezzo è la base di partenza per un approccio tattico totalizzante, che si sposa alla perfezione con le caratteristiche dei giocatori che compongono la rosa partenopea.

Qualità tecnica e nelle letture

La costruzione assai qualitativa del Napoli non nasce per caso. C’è una grande organizzazione di fondo. A cominciare da Lobotka, un pivote estremamente intelligente nelle letture, che non forza le scelte. E sa decidere lucidamente se tenere palla anziché scaricarla, favorendo le corse in profondità e le zone da occupare.

Senza dimenticare che un po’ tutti gli offensive players in organico sono accomunati da indubbie qualità individuali, tali da permettere alla manovra di mangiare abbondanti metri all’avversario, risalendo rapidamente il campo.

E’ il rischio concreto che ogni domenica devono decodificare chi incrocia il cammino con i vari Zieliński, Politano e Kvaratskhelia.

Inoltre, non va trascurato un piccolo particolare: gli azzurri non necessariamente hanno bisogno di determinare attraverso un gioco complesso e articolato. Per esempio, domenica l’uomo di Certaldo ha inserito Lozano e Osimhen per trovare le giuste crepe nel sistema di Thiago Motta.

Quindi, a cambiare l’inerzia del match, punendo un Bologna ben messo in campo ha provveduto il calcio diretto e verticale generato dagli uomini usciti dalla panchina.

Solito dualismo stucchevole

In definitiva, pare che il Napoli lassù certifichi come, nonostante produca un’ampia mole di occasioni da rete nell’arco dei 90’, riesca comunque a mantenere una efficace tenuta difensiva, sfruttando con puntualità le situazioni offensive. Complicando contemporaneamente quelle degli avversari.

Uno scenario che stimola negli addetti ai lavori l’eterno dualismo tra sistema proattivo e reattivo. Un esercizio di stile talvolta retorico e pretestuoso, che mette l’un contro gli altri i portabandiera del gioco d’attacco a quelli dell’esasperante difensivismo a oltranza.

Come se l’unica maniera per giocare bene passasse esclusivamente per una estetica accattivante. Mentre poi la vittoria del campionato dovesse concretizzarsi in virtù del cd. “calcio all’italiana”.

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