Da sempre il calcio rappresenta la cosa più importante, tra quelle che non contano assolutamente nulla. Ovviamente non è così per i tifosi, che considerano la loro passione alla stregua di un dogma. Qualcosa che esiste a prescindere.

Impossibile immaginare che non sia giusto fare altrimenti: la squadra del cuore si ama. Un principio sin troppo elementare da accogliere. Senza poterne minimamente mettere in discussione la veridicità.

Un modo di pensare valido a qualsiasi latitudine. Specialmente se associato al magmatico fenomeno della galassia ultrà. Eppure, da qualche tempo a questa parte, il tifo organizzato pare stia subendo una regressione.

Ovviamente, tutt’altro che imputabile alla volontà di chi anima i settori popolari.

A incancrenire una situazione che già aveva smesso di essere idilliaca da un bel pò, sono intervenuti i cd. “regolamenti d’uso” all’interno degli stadi. Ovvero, le normative che disciplinano il comportamento di chiunque acquisti un biglietto per assistere alla partita.

In soldoni, per potere accedere al proprio posto, e rimanervi senza incorrere eventualmente in comportamenti tali da metterne addirittura in dubbio la permanenza all’interno dell’impianto, bisogna accettare questo regolamento. Nonchè le norme emanate dalla Lega Calcio e dall’Autorità di Pubblica Sicurezza.

Cosa che avviene, implicitamente, al momento dell’acquisto del ticket. Un atto semplice, che però, utilizzando un linguaggio giuridico da iniziati della materia, nient’affatto comprensibile per tutti, formalizza immediatamente un contratto di prestazione tra tifoso e gestore. Generalmente, le stesse società.

Insomma, “burocratese” allo stato puro. Eppure, nulla di così strano o trascendentale: assistere ad una partita comporta diritti e doveri per il pubblico pagante. Così, l’inosservanza del regolamento d’uso comporta l’immediata risoluzione del rapporto contrattuale descritto poc’anzi.

A questo punto, sarebbe lecito chiedersi quale sia l’oggetto del contendere.

Il fatto è che a Napoli, il regolamento d’uso all’interno del Maradona Stadium viene applicato con una rigidità che non avrebbe eguali in nessun altro stadio italiano. Un eccesso di formalismo, che secondo una diffusa corrente di pensiero, trova spiegazione e fondamento nella volontà di sfavorire soltanto lo zoccolo puro e duro della tifoseria più o meno organizzata.

Magari è anche così. Nel senso che, per mission aziendale, il Napoli viene gestito come una impresa commerciale: un’indole presidenziale senza dubbio giustificabile, perchè il Diritto di Proprietà è sacrosanto.

Per cui, chi va allo stadio diventa un cliente da privilegiare, invece di essere considerato alla stregua di un “malato” d’amore. Altresì, senza alcuna possibilità di guarigione.

Questo contesto ha contribuito a generare il salotto asettico e silenzioso, che ha caratterizzato pure la partita di ieri contro il Torino. In casa della capolista, momentaneamente in difficoltà dopo il rigore fallito, si sentiva, alto, un solo grido: “Toro… Toro…”.

Ormai a Fuorigrotta impera il bon ton. Al netto di qualche sporadico “vaffa…” o del puerile, quanto scontato “merda…” sul rinvio del portiere. Sparita la creatività goliardica e l’ irridente sfacciataggine con cui venivano coniati striscioni e cori.

Gli ultras non pretendono assolutamente di andare contra legem. Nessuna zona franca, dove sacramentare, bevendo e fumando liberamente. Solo una comfort zone a loro dedicata: un settore popolare dove poter stare in piedi a cantare.

In effetti, non chiedono poi tanto. Del resto, settori del genere sono previsti in Inghilterra e Germania. Nel frattempo, continuano a rimanere fuori. Mentre la squadra soffre, priva di supporto, spinta emotiva e romanticismo…