Enrico Maniero è il tipico calciatore di inizio anni ’80. Per inciso, quelli cresciuti nel settore giovanile, che andavano a farsi le ossa in C. E dopo tornavano alla casa madre.

Era un altro calcio, ovviamente. Per gli allenatori la distribuzione di minutaggio e rotazioni era tutt’altro che scientifica. Non esistevano le rose elefantiache come adesso. Le panchine nient’affatto lunghe. Ben al di là da venire il turnover. “Attualmente, il calendario ricco di impegni ravvicinati obbliga ad avere 24/25 giocatori. Questa cosa rende quasi impossibile per un prodotto del vivaio affacciarsi in prima squadra. Mentre prima, in caso di infortuni, c’era bisogno di attingere necessariamente dalla Primavera”.

Anche gli uomini, però, erano diversi. Accettavano il classico iter di progressiva crescita professionale con la consapevolezza di quanto potesse essere arduo poi ritagliarsi un posto al sole della Serie A. “Forse l’arrivo dei procuratori ha cambiato la mentalità dei calciatori. La mia generazione pensava esclusivamente ad allenarsi e giocare. I giovani venivano educati a stare in gruppo. Guai se non aiutavi il magazziniere a raccogliere l’attrezzatura. Immancabilmente, finivi al centro del torello preallenamento. E qualche volta dovevi pure portare il borsone ai senatori…”.

Il primo Scudetto non si scorda mai

Nonostante l’esperienza con la maglia del Napoli sia durata l’arco di una sola stagione, Maniero ha comunque lasciato una traccia indelebile del suo passaggio in azzurro.

Il primo Scudetto, in assoluto, della storia partenopea, infatti l’ha vinto la Primavera, nella stagione 1978-79, battendo in finale il Torino. A tutt’oggi, quello rimane l’unico titolo conquistato nella massima competizione giovanile. “Ne facevano parte Musella, Vincenzo Marino e Amodio. In squadra c’erano anche Di Fusco, Celestini e Raimondo Marino. Che poi hanno vinto lo Scudetto nell’86 (Marino, però, a gennaio fu ceduto alla Lazio, n.d.a.). Insomma, tutti giocatori che hanno avuto una carriera importante tra i professionisti”.

In panchina, una icona dell’italico pallone: Mariolino Corso. Un mancino dolcissimo, indissolubilmente associato alla mortifera “foglia morta”, come il pallone che scendeva dalle sue punizioni, scavalcando dolcemente le barriere. “Come allenatore era un precursore. Svolgevamo l’intero allenamento con il pallone tra i piedi. Oggigiorno tutti lavorano essenzialmente con la palla. Ma a quei tempi non era così. Si facevano un mucchio di esercitazioni a secco…”.   

Da sinistra, in piedi: Antoniazzi, Volpecina, Amodio, Raimondo Marino, Maniero, Di Fusco, Corso (allenatore). Accosciati: il massaggiatore, Testa, Palo, Celestini, Nuccio, Vincenzo Marino.

Il valore di quella squadra era innegabilmente superiore alla media. L’aspetto qualitativo, curato ai limiti del maniacale, fu dunque funzionale a rendere meno traumatico il travaso dal settore giovanile al calcio dei grandi. “Quello era un gruppo davvero fortissimo. Che ha avuto la fortuna di crescere gradualmente e poi esordire in A”. A testimoniarlo, il fatto che già l’anno prima perse la Coppa Italia, nella doppia finale, contro l’Inter. “Il rammarico è dovuto al fatto che mentre noi eravamo tutti ragazzi del ’61, i nerazzurri schierarono un mucchio di fuori quota, tra cui Beppe Baresi (classe ’58) e Odoacre Chierico (classe ’59)”.

Stagione 1981-82, Napoli a ridosso delle “grandi”

Il calcio dell’epoca non è certamente quello pionieristico degli anni addietro. Tuttavia, siamo ancora lontani dai fasti del quinquennio successivo. Quello dell’Edonismo Reaganiano, e del conseguente boom economico dei presidenti, che stravolse per decenni l’italico pallone.

Se pensiamo, per esempio, che la stagione 1981-82 è la prima in cui alle squadre fu concesso il permesso di adornare le maglie con lo sponsor, forse si comprende meglio la realtà calcistica di allora.

Il diesse, Franco Janich, movimenta il mercato in entrata con un attaccante del calibro di Palanca. L’anno prima, aveva condotto il Catanzaro al settimo posto, segnando la bellezza di 13 gol. Secondo cannoniere del campionato, alle spalle di Pruzzo, autore di 18 reti. “Peccato che non riuscì a esprimersi sui suoi livelli. Ma il nostro era un ottimo attacco. C’era Damiani, uno che ti aiutava fuori e dentro il campo. Non aveva paura che gli rubassero il posto. Anzi, era prodigo di consigli, anche per i più giovani. E Claudio Pellegrini. Prolifico sotto porta, anche se spesso qualche gol di troppo lo falliva…”.

A rinforzare il gruppo, affidato al confermatissimo Rino Marchesi, reduce da uno scudetto sfuggito sul filo di lana l’anno prima, soltanto a causa di un dolorosissimo autogol, anche Criscimanni (Avellino), Benedetti (Pistoiese) e Citterio (Lazio). Non propriamente realtà di primissimo piano.

Una squadra competitiva, che non mollava mai

Nondimeno, il Napoli si classifica quarto. Centrando la qualificazione alla Coppa Uefa.

Un campionato talmente equilibrato, che si decise tutto all’ultima giornata. Un volatone finale non privo di aspre polemiche, che si protrarranno negli anni a seguire.

In coda, il pareggio raggiunto in extremis dal Genoa proprio al San Paolo, decretò la salvezza del Grifone, e la retrocessione in B del Milan. “Era un calcio diverso, magari meno intenso. Ma sicuramente più qualitativo. Noi Eravamo una squadra estremamente competitiva…”.

In vetta, Juventus e Fiorentina si presentano a pari punti. Entrambe in trasferta: la Viola, cui venne annullato un gol di Graziani, non riuscì a scardinare la retroguardia del Cagliari, bisognoso di punti in chiave salvezza. Al contrario, la Vecchia Signora, con un rigore di Brady, espugnò Catanzaro, aggiudicandosi il Tricolore. “Ce la giocammo alla pari con tutti, fino alla fine. Avevamo una difesa fortissima, impenetrabile, gestita da Krol. Ed un centrocampo capace di abbinare qualità, con il sinistro di Guidetti, a quantità, con Vinazzani che si faceva il campo continuamente avanti e indietro. E poi c’era Musella: un lusso, con quei piedi stupendi”.

Scelte diverse, per affermarsi altrove

A fine anno, nonostante le insistenze di Janich, Maniero sceglie di cambiare aria. Forte la voglia di mettersi in discussione. Modena e soprattutto Cosenza, le tappe successive di una carriera che si intreccia indissolubilmente con la Calabria.

Cinque anni meravigliosi. Una promozione in B che attendavano dalle parti della Sila da ben ventiquattro anni. E un’altra promozione solamente accarezzata, compromessa sul più bello dalla tragedia di Bergamini.

Ma questa è un’altra storia…

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