Facile, quando qualcuno sente il nome di Maradona, associarlo al Napoli. La storia, non solo calcistica dell’argentino, si è intrecciata in maniera indissolubile col sostrato culturale della città, donandole nuova linfa. Del resto, ovunque all’ombra del Vesuvio, ci sono tracce concrete del passaggio de El Diez, vera icona del novecento pallonaro. Proprio in questo contesto sboccia Alessandro Romei, che non può davvero esimersi da prenderlo come modello di riferimento.

Spesso capitava che con la Primavera del Napoli giocassimo il sabato, mentre la prima squadra era in ritiro proprio al Centro Paradiso. Diego, assieme ad altri compagni veniva a vederci. E’ stato il primo contatto diretto che ho avuto con lui. Talvolta lo incrociavo nei corridoi della sede, ma ne ero abbastanza intimidito per scambiarci qualche parola…”.   

Primavera Napoli 1986/87

Un dettaglio trascurabile, per chi si concentra sul tocco preciso e la bontà della tecnica espressa in situazione, mai fine a sé stessa. Sandro cresce nel grembo del vivaio partenopeo, figlio di un ciclo d’oro, sotto la guida di autentici “maestri” del settore giovanile: Alessandro Abbondanza e Riccardo De Lella ne valorizzano il talento, permettendogli di muoversi spensierato e al contempo calarsi in un sistema di gioco comunque assai organizzato.

Abbondanza stravedeva per me, ero una sorta di pupillo. Mi selezionò proprio lui dal nucleo addestramento giovani calciatori, bastò una mezz’oretta al provino e subito mi prese. Da lì in avanti, fascia di capitano e numero dieci sulle spalle. Ha contribuito tanto a formarmi sul piano tecnico. Addirittura, quando allenava la Berretti, mi volle fortemente in quel gruppo, facendomi giocare sotto età. Tant’è vero che dovetti aspettare almeno il compimento del sedicesimo anno, prima di debuttare. Con De Lella ho completato il percorso nel settore giovanile, facendo la Primavera: educazione, disciplina tattica senza trascurare i fondamentali. Un altro che mi ha trasmesso delle cose che poi ho ritrovato più avanti…”.  

Ritiro Napoli 1986/87 Maradona con Primavera

Un’ascesa fino alla Primavera, seguendo sempre la solita rotta. La ricerca della giocata risolutiva, la pennellata d’autore. Se ne accorge anche Ottavio Bianchi, che lo aggrega al gruppo di ragazzini terribili saliti in ritiro a Madonna di Campiglio nell’estate ’86, quella che prepara lo storico primo Scudetto del Napoli. “Diego mi chiamava Romeo, storpiando scherzosamente il mio cognome. Mi diceva che somigliavo a un suo connazionale, Beto Alonso. Come lui ero mancino e giocavo a testa alta. Una cosa che mi gratificava, ma ho capito solo anni dopo l’enorme complimento che mi stesse facendo. Me ne sono reso conto leggendo la sua autobiografia: Io Sono El Diego. C’è un passaggio in cui svela il nome dei due giocatori che l’hanno fatto innamorare del gioco”.

Da far tremare i polsi, la nomination de El Más Grande: lo storico calciatore dell’Independiente, Ricardo Bochini, Campione del Mondo con l’Argentina nel 1986. E proprio Norberto “Beto” Alonso, simbolo del River Plate e Mundial con l’Argentina nel 1978.

Nei Top 11 anche Romei

Quel Napoli è veramente troppo forte per pensare di rimanere in pianta stabile con i “grandi”. L’obiettivo rimane quindi esprimersi al meglio, senza pressioni, al cospetto del suo idolo, nelle classiche partitine a ranghi contrapposti dei giovedì al Centro Paradiso.

La norma era che i migliori in campo al sabato con la Primavera, poi andavano a fare la partita con i grandi. Resta un ricordo vivido, emozioni forti, difficili da dimenticare. Ci spogliavamo tutti assieme, facevamo il riscaldamento. Ma non si cominciava se non arrivava Diego. Entrava in campo con gli scarpini slacciati, scambiava qualche parola con Bianchi. Quindi, si giocava. Faceva cose straordinarie con una naturalezza disarmante. E spesso gli scarpini rimanevano slacciati…”.

Romei deve accontentarsi della stima di Italo Allodi (“Durante la tradizionale cena dedicata al settore giovanile, con tutte le squadre invitate al Paradiso da Dino Celentano e Paolo Fino, per ricevere il classico regalo dalla società, Allodi mi chiama in disparte, confessandomi che la società ha grandi aspettative e punta sul sottoscritto. Immagina il mio stupore nel sentire certe parole da un personaggio così carismatico, che fino a quel momento avevo visto soltanto in tv…”). E della trasferta di Coppa Italia, girone eliminatorio in una torrida serata di fine agosto, sul campo neutro di Lecce, contro il Taranto, per viaggiare con Maradona & company.

Declinando tutto il suo talento nella prestigiosissima vetrina del Torneo di Viareggio, che arricchisce la sua avventura con uno delle gratificazioni più belle ricevute in carriera. Al termine della Coppa Carnevale viene inserito nella Top Undici della manifestazione, formando una linea offensiva di assoluta qualità, composta da Stroppa (Milan) e dal terzetto del Torino: Fuser, Lentini e Giorgio Bresciani.

Tutti giocatori che hanno avuto poi una carriera importante in Serie A. Quello che ha fatto meno sono proprio io. Analizzare le cause di questa situazione non è mai tanto semplice. Non credo che abbia influito il fatto che provenissi da una famiglia borghese. Penso invece che nel percorso calcistico ci voglia anche un po’ di sedere. Nei momenti topici sono stato pure sfortunato. Per esempio, a Barletta mi sono rotto il menisco. Trascinandomi i postumi per l’intera annata. Al punto da dovermi poi rioperare. In talune circostanze è mancata forse la giusta cattiveria nell’affrontare con feroce determinazione le cose”.

Amarildo e Beccalossi

Arriva finalmente il momento di lasciare la comfort zone del Centro Paradiso e tentare l’avventura tra i professionisti. Con la Rondinella il pragmatismo diventa predominante. La C2 è un campionato fatto di poco stile e tanta quantità. Nondimeno, Romei conferma di essere una mezzala completa, imprescindibile per la mediana della seconda squadra di Firenze, che annovera un nome di grido in panchina, il brasiliano Amarildo, nonché un compagno di reparto dal curriculum importante. Quel Piero Braglia che dopo tanta Serie A con il Catanzaro, spara le ultime cartucce in campo. Prima di trasformarsi in uno degli allenatori più vincenti della Terza Serie nelle stagioni a venire. 

Era la prima esperienza lontano da casa. La serie C di allora era un campionato abbastanza duro, e lo era ancor di più per giocatori tecnici, come nel mio caso. Ero molto giovane e avevo grandi ambizioni. Con Amarildo il rapporto fu un pò contraddittorio. Lui talvolta era irascibile, io comunque un ragazzino. Mica era come al giorno d’oggi, che avevi tutte le informazioni a portata di click. Sapevo che era stato un buon giocatore. Ma non mi rendevo conto di avere a che fare con una leggenda del Brasile. Però mi apprezzava non poco. Diceva: con me Romei mette tre magliette, non una, da titolare…”.

Sembra il trampolino giusto per salire subito di categoria. Lo prende il Barletta, in Serie B. Gioca poco o nulla, ma fa in tempo a conoscere un altro “fenomeno” degli anni ’80: Evaristo Beccalossi, specializzato in pennellate dal tratto raffinato. Un centrocampista che declina il passaggio a favorire lo smarcamento dei compagni come forma d’arte contemporanea.

Nonostante fosse quasi alla fine della sua carriera, stava bene fisicamente, tirato a lucido. Evaristo aveva una grandissima classe. Riusciva a fare con la palla certe cose, in termini di assist e giocate”.

A quel punto per Romei si presenta un rompicapo da risolvere: inchinarsi a certe dinamiche legate al poco coraggio nell’affidarsi ai giovani, oppure tornare indietro in C. Dove piedi educati come i suoi sono merce rara. Ben presto, tuttavia, si accorge di quanto sia complesso affermarsi. La sua libertà espressiva cozza con l’ossessione per il calcolo, tipico di determinate realtà, che preferiscono il ragionamento utilitaristico invece di declinare il gusto per il gesto tecnico. Lanciano e Ospitaletto non possono prescindere da quell’idea. Si potrebbe persino insinuare che due momenti così contraddittori, corrispondano fatalmente con l’inizio di una esperienza entusiasmante: l’arrivo alla Juve Stabia.

Fiore e Musella

Cinque anni con le Vespe conditi da tantissime soddisfazioni, e una promozione in Serie B persa sul filo di lana, che sa di sliding doors, evento imprevedibile che può cambiare la vita di una persona.

Il primo fu un anno di transizione, Fiore si insediò a campionato in corso. Conquistammo una risicata salvezza, vincendo ai rigori lo spareggio col Cerveteri. Ma gettammo le basi per l’anno successivo. Rimasero il portiere Fabbri ed i difensori Colavitto e Gori. La squadra fu notevolmente rinforzata. Arrivarono i difensori Ciro Raimondi, Veronici e Billone Monti. Musella e Talevi a centrocampo. E Giorgio Lunerti là davanti. Stavincemmo la C2 con Piero Cucchi in panchina. Come dimenticare poi il primo anno di C1. Sfiorammo la serie B, perdendo la finale play-off contro la Salernitana”.

Quella squadra è il manifesto filosofico di Roberto Fiore, che plasma la sua “creatura” con la forza dell’ingegno. Un visionario, l’ex presidente del Napoli dal 1964 al 1967. Vola con la mente talmente in alto da vedere metaforicamente cose ancora prima che si realizzino. Infatti, durante la sua gestione, portò all’ombra del Vesuvio Sivori ed Altafini

Era il classico presidente mecenate. Altro che guadagnare col calcio. Si faceva un mucchio di conti e previsioni, che puntualmente non si avveravano. A quel punto, ce li metteva di tasca sua, i soldi che mancavano. E poi si prendeva anche in giro da solo, per questa sua indole generosa. Abbiamo mantenuto un rapporto anche dopo l’esperienza a Castellammare. Passavo sotto il suo balcone, in via Catullo, e gli cantavo il coro che gli avevano dedicato i tifosi (“Roberto Fiore… presidente, tu hai fatto innamorare questa gente…”, n.d.a.). Lui si affacciava e puntualmente pretendeva che salissi. E davanti a uno spaghetto oppure un caffè, raccontava un mucchio di aneddoti sul periodo in cui era stato presidente del Napoli…”.

In questa storia non bisogna trascurare un piccolo dettaglio. Chi ha l’azzurro nel cuore, appena qualche anno prima di Diego Armando, s’è innamorato di un altro “genio”, elegante e contraddittorio: Gaetano Musella. Un nome magari meno appariscente, ma in grado di affascinare tifosi e addetti ai lavori con i suoi fondamentali. Piedi morbidi come la seta e precisi come un microchirurgo. Insomma, il prototipo dell’offensive player moderno. Peccato, però, che stiamo parlando del Napoli dei primi anni ’80. Il golden boy di Fuorigrotta, dunque, rappresentava un antesignano nell’interpretare il ruolo in quel modo, con grande dinamismo abbinato a prepotente fisicità.

Ammiravo Musella. Giocare con lui mi ha procurato un mix di emozioni, tutte bellissime e indimenticabili. Ritrovavo il mio idolo di quando facevo il raccattapalle al San Paolo, da ragazzino. Al contempo, dovevo contendergli il posto in squadra. Accettavo la concorrenza. Però quando ci schieravano assieme, era uno spettacolo. In genere attuavamo un sistema assai offensivo, con una punta centrale ed alle spalle il sottoscritto e Gaetano. Ci dividevamo la trequarti, scambiandoci spesso la posizione. Ma lui aveva piedi dolcissimi. Se ti smarcavi bene, poi ti metteva la palla dove volevi. In pratica, Nino ispirava ed io mi muovevo più da seconda punta…”.  

La Juve Stabia che sfiora il doppio alto è un gruppo con due marcatori implacabili, Amodio e Marco De Simone. Ma dall’indole decisamente offensiva, che interpreta un calcio proattivo, capace di sopportare un fluidificante a tutta fascia come Incarbona. E un centrocampo di grandissima qualità formato da Romei, Musella e Talevi, a sostegno di una coppia d’attacco (Lunerti-Onorato) mortifera negli ultimi sedici metri. Insomma, ciò che qualsiasi altra squadra sviluppava in due o tre tocchi, loro riuscivano a farlo di prima, specialmente nello stretto.

Una stagione bella e intensa, vissuta con grande partecipazione da tutti per cercare di raggiungere l’obiettivo. Con Fiore che ci stimolava continuamente. Resta il rammarico non tanto per la per la finale con la Salernitana. Bensì, per la semifinale contro la Reggina. Perdemmo 3-2 ai supplementari, in trasferta, qualificandoci comunque. Ma fu una battaglia, con tanti ammoniti. Così, in finale dovemmo improvvisare l’intera retroguardia. Va anche detto però che la Salernitana era una squadra molto forte, praticava un calcio moderno. Forse ci erano superiori come collettivo. Ma inferiori a livello di individualità. Chissà, se fossimo stati al completo”.  

Dal racconto di Romei emerge una netta separazione tra le stagioni stabiesi ed il prosieguo della sua carriera. Quasi come una sorta di prima e dopo. In effetti, Sandro appende gli scarpini al fatidico chiodo abbastanza presto rispetto alle consuetudini radicate nell’ambiente. A caccia di ulteriori stimoli, lavorativi e professionali, si dedica prima a investimenti imprenditoriali. Quindi, torna all’antico amore: il pallone. E con la International Football Agency si dedica a intermediazione e consulenza, sempre a caccia di nuovi talenti.  

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