-di Gennaro Saviano

Siviglia, 7 maggio 1986. Trentasette anni fa, un altro mondo, con il Muro di Berlino ancora in piedi, destinato a vita all’apparenza eterna. Un mondo diverso, un calcio diverso, una Coppa dei Campioni diversa. Così tanto da quella cui siamo ormai abituati che è addirittura possibile veder salire sul tetto d’Europa una squadra piccola e semisconosciuta, dal gioco scabro e per nulla incline all’abbellimento artistico. La squadra principale della capitale di un paese comunista, poi. Che si impone nell’odiato Occidente decadente e capitalista. 

E lo fa grazie a un giocatore, Helmuth Duckadam, il loro portiere. 

Quel 7 maggio 1986, allo stadio Ramón Sánchez Pizjuán, costruito negli anni cinquanta, in pieno regime franchista, davanti a sessantamila spettatori si fronteggiano il Futbol Club Barcelona e la Steaua Bucarest, autentica rivelazione del torneo. 

La squadra catalana è ben conosciuta agli appassionati, che sono diventati tifosi grazie ad alcuni atleti che hanno indossato la maglia blaugrana: gente del calibro di Luisito Suárez, Johan Cruijff e Diego Armando Maradona. Ha vinto trofei su trofei. Le manca soltanto la Coppa dei Campioni per arricchire un ricco, prestigioso palmarès: al contrario degli odiati rivali del Real, il club di Barcellona è all’asciutto in Coppa dei Campioni. I catalani partono col favore del pronostico. 

I rumeni, al contrario, sono giunti in finale a sorpresa. Più grazie al lavoro del collettivo che per la qualità dei propri singoli. In squadra comunque giocano uomini di un certo livello come Belodedici, Lăcătuş, poi destinato a una grigia e deludente trasferta fiorentina, e Bölöni, il più “vecchio” di una squadra giovane. Lo stesso Duckadam ha del resto appena ventisette anni e gioca da professionista da otto. Un pezzo di marcantonio: 189 cm d’altezza per 69 kg di peso, che difende la porta della “Stella di Bucarest” da quattro anni, dopo aver appreso i rudimenti del calcio e aver esordito in Divizia A, la prima divisione rumena, con le squadre della sua città: rispettivamente, il Constructorul Arad e l’UT Arad. 

La Romania di quegli anni è sotto il giogo, pressante e asfissiante, della dittatura comunista di Nicolae Ceauşescu, il “Conducător” (“Condottiero”), il “Geniul din Carpaţi” (“Genio dei Carpazi”): guardate o riguardate il capolavoro cinematografico di Cristian Mungiu 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni per avere una sia pur vaga idea come poteva essere vivere a Bucarest, Costanza o Iaşi in quegli anni. 

La famiglia del “Genio”, per evitargli tradimenti, è inserita in tutti i gangli del potere rumeno: dopotutto, Valentin, figlio adottivo di Nicolae, un laureato in fisica e matematica, è presidente della Steaua. 

Il regime, naturalmente, non permette ai propri cittadini di uscire dai confini nazionali: ciò è permesso solo alle delegazioni che si recano all’estero. E in effetti, gli oltre settantamila spettatori della finale che si tiene al Ramón Sánchez Pizjuán sono perlopiù spagnoli. 

Per il Barcellona la vittoria sembra scontata, eppure… eppure i rumeni riescono a imbrigliare la manovra dei catalani. 

La partita non è spettacolare e termina con un secco, soporifero 0 a 0, anche dopo i tempi supplementari. Si va pertanto alla lotteria dei rigori, da sempre la più temuta dai calciatori: chi segna viene portato in gloria, chi sbaglia cade nella vergogna e nel rimorso. Lo ben sa Roberto Baggio, tanto per rivangare un infausto ricordo della infanzia di molti appassionati. 

La parata di Banks su Pelé a Messico ’70

La tensione che assale i portieri deve essere centuplicata: come sempre, quando il portiere subisce una rete è redarguito, umiliato. È sempre il primo a pagare, ha sempre la colpa, come scrive Eduardo Galeano. Mai che gli si riconoscano meriti, quando riesce a sventare una rete: tutti ricordano, per esempio, il meraviglioso gol di Maradona a Messico ’86, quasi nessuno invece ricorda la splendida parata di Banks sul colpo di testa di Pelé a Messico ’70. 

I rigori di Steaua Bucarest-Barcellona rendono giustizia alla categoria: il basco Urruti neutralizza quelli di Majearu e di Bölöni). 

Ma a salire in cattedra è Duckadam. Questo rumeno allampanato, con due baffi foltissimi nullifica Alexanko, Pedraza, Pichi Alonso e Peña. Tutt’e quattro ipnotizzati dall’espressione seria e imperturbabile dell’uomo di Arad. 

Il portiere non cambia mai espressione, sembra dimentico di cosa stia facendo, di dove si trovi. Mantiene in tutt’e quattro i momenti la stessa faccia di pietra: che contrasto con l’istrionismo, forse non sportivo ma di sicuro efficace, messo in mostra da Bruce Grobelaar appena due anni prima. Duckadam guarda ciascun tiratore e ciascuno di loro, non si sa né come né perché, sbaglia. Sembra quasi che Helmuth li guidi, dica loro: “Manda la palla dove dico io”. E infatti tutti, tranne uno, tirano a destra. 

Superman è rumeno”, titolerà il giorno dopo il Corriere dello Sport e nel suo paese verrà chiamato “Eroul de la Sevilla”, eroe di Siviglia. Questo è il culmine della carriera di Helmuth, il quale subito dopo smetterà di giocare. 

Voci raccontano che è stato proprio Valentin, il figlio intellettuale di Nicolae, a pretendere che al “Superman rumeno” venissero spezzate le mani: Duckadam, sempre stando a queste voci, avrebbe rifiutato di dare a Valentin una Mercedes che gli fu regalata dal Real Madrid per “ringraziarlo” della sconfitta degli odiati rivali catalani: il papà adottivo di Valentin invece aveva promesso una moto a testa per ciascun calciatore, ma alla fine rifilò dei pessimi fuoristrada ARO acconciati con pezzi di altri autoveicoli. I giocatori giustamente se ne sbarazzarono dandoli ad abitanti di Bucarest. Helmuth ha sempre respinto questi racconti: stando a lui, si è trattato di un grumo di sangue che si è spostato all’interno del suo braccio destro. 

Questa è in definitiva la sua storia, meritevole di racconto e ricordo.