Una delle proposte ventilate per provare a risollevare il calcio italiano dalla spirale di profonda crisi in cui è precipitato nell’ultimo decennio è la istituzione delle cd. seconde squadre. In Spagna, Inghilterra, Germania e Francia esistono già da tempo: fanno da cuscinetto tra la tradizionale trafila all’interno di un settore giovanile ed il lancio nel professionismo. In Italia, l’ipotesi si è riproposta immediatamente dopo la mancata qualificazione al Mondiale di Russia, come una delle soluzioni adeguate a preparare i giovani calciatori al salto – nella stragrande maggioranza dei casi, senza paracadute – nel calcio dei grandi. Ugualmente i candidati alla guida della Figc, prima del commissariamento da parte del Coni, sostenevano – nei rispettivi programmi elettorali – la necessità di introdurre le “seconde squadre”. Tanto Cosimo Sibilia quanto Damiano Tommasi, infatti, proponevano la partecipazione di queste squadre, costruite solo con calciatori Under 21, nel campionato di Serie C. Riconoscendo, al contempo, alle società di appartenenza la possibilità di utilizzare i giocatori under con la “prima squadra”, ma solo per un numero limitato di partite.
Gli ipotetici vantaggi che il calcio italiano avrebbe nell’adottare il sistema delle seconde squadre è innegabile. Innanzitutto, fornirebbe un vero e proprio rodaggio funzionale all’ingresso in prima squadra. Attualmente affidato quasi esclusivamente al fenomeno delle varie forme contrattuali di prestito (“secco”, con obbligo o con diritto di riscatto). Uno scenario favorevole, sia per i talenti più precoci, che per quei calciatori il cui processo di maturazione avviene più lentamente. A chi impiega un po’ più di tempo a sbocciare, verrebbe comunque incentivata la formazione, mantenendo costante il legame con la “casa madre”. L’introduzione delle seconde squadre avrebbe anche un valore etico. E’ innegabile che il sistema attuale, evidentemente condizionato dal fenomeno dei prestiti e delle comproprietà (più o meno velate), appare sin troppo subordinato da rapporti trasversali, dettati da interessi personali e congiunturali. Antitetici al principio della sportività e della uguaglianza competitiva. Oltre che incompatibile con la necessità di alimentare uno scenario di crescita favorevole ai giocatori italiani.
Nelle maggiori Leghe europee, dunque, il modello seconde squadre è una realtà radicata, pur se il loro funzionamento non è univoco (come vedremo nella prossima puntata, n.d.c.). A dimostrazione che la ricerca e la costruzione del talento può avvenire in maniera diversa. Anche in considerazione del sostrato socio-economico e culturale del Paese preso in considerazione. Il comun denominatore, però, è sempre lo stesso: investimenti tesi a valorizzare il prodotto allevato nel proprio vivaio, in un contesto di calcio “vero” e non semplicemente giovanile. Facendo un ideale giro d’Europa a tappe, appare evidente come le deficienze del sistema italiano non possano che trovare spiegazione e fondamento nella bocciatura del campionato Primavera. Il problema di fondo è la poca competitività di questo campionato. Sempre più spesso le società si limitano a partecipare, perché obbligate da una norma federale. Gli investimenti sono minimi e cozzano con quelle pochissime realtà che, al contrario, considerano la Primavera l’apice di un processo di crescita del calciatore, programmato nel tempo attraverso un progetto pluriennale. E in cui la crescita tecnico-tattica del giovane va di pari passo con la sua maturazione fisica. Il tutto, supportato da massicci investimenti economici e strutturali.
Ecco perché appare evidente l’abissale differenza di valori incontrata al momento di passare in prima squadra tra i calciatori italiani che giocano nel campionato Primavera e gli omologhi in giro per l’Europa. Dove i giovani si misurano in campionati “veri”. Affrontano rivali di buon livello e di età assai eterogenee. In stadi pieni ed ambienti calorosi. Tutte componenti determinanti per la loro maturazione. Sicuramente più funzionali ad un ingresso anticipato nel “calcio vero”, che sostenere qualche allenamento infrasettimanale aggregati alla prima squadra. Il principio è sempre lo stesso: un calciatore dotato di talento cresce di più se gioca in competizioni di livello superiore. Al tempo stesso, il processo di miglioramento può subire una stasi, se non addirittura dar luogo ad una regressione, in competizioni inferiori. Dove al talento riesce tutto con semplicità. Confrontandosi con giocatori di livello superiore, il giovane dovrà necessariamente sforzarsi di più per palesare le sue qualità. Il suo miglioramento sarebbe evidente ed incontestabile!!!
Francesco Infranca
Giornalista