“Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio”. Partiamo da qui, da una dichiarazione tutto fuorché banale di Jose Mourinho, l’allenatore che ha riscritto il concetto di dialettica da sala stampa di uno stadio. Assunto che quanto il portoghese affermi sia vero, allora possiamo dire che quando si parla di calcio, non si parla solo di calcio.

Quando si parla di calcio, quando si prova ad analizzarlo al di là del racconto dell’epica, della cronaca e del tabellino, della notizia di calciomercato, si parla anche (e soprattutto) di politica, di potere, di attualità, di scienze umane, di letteratura e filosofia. In una parola di società.

È per questo motivo che le accuse che stanno piovendo su Marek Hamsik, “reo” di aver agguantato Peppe Bruscolotti con le sue 511 presenze in maglia azzurra, non possono essere bollate superficialmente come chiacchiere da bar. No, perché sarebbe come sconfessare quanto detto poc’anzi, oltre che sminuire il peso simbolico di un uomo che, a prescindere da come la si voglia interpretare, ha contribuito a scrivere le ultime pagine della storia contemporanea del calcio Napoli.

“Ha tolto i record a napoletani che hanno dato l’anima a differenza sua”.

“Le sue 511 sono falsate. Oggi si gioca molto di più rispetto a prima”.

Parole che suonano come pietre nei confronti di un uomo e di un’intera generazione. Sì perché (e qui si smette di parlare di calcio e si inizia a parlare di calcio) si innesca la classica dinamica da ramanzina generazionale dove il senso è che prima le cose erano fatte meglio, erano più difficili, che oggi tutto è una barzelletta e che se raggiungi un risultato è solo perché probabilmente hai sfruttato una falla del sistema.

Prendersela con Marek dopo 11 anni d’azzurro, rinfacciargli di non essere napoletano, quasi fosse una colpa e non l’ulteriore dimostrazione d’amore incondizionato nei confronti di una terra e del suo popolo, è un attacco a tutti i giovani tifosi che hanno visto nello slovacco l’unica bandiera vivente che abbia mai tastato con gli scarpini il manto verde del San Paolo. Una bordata a chi, come il sottoscritto, non ha mai vissuto l’incanto dei due scudetti, ma che, invece, affonda i primi ricordi da tifoso nelle lacrime di Fabio Cannavaro che manda il suo Napoli in B, nel pantano della presidenza Ferlaino-Corbelli, nel fallimento e nell’inferno della serie C.

Per noi Marek non è solo l’uomo dei record, è qualcosa di più. Un eroe redentore venuto a farci provare (almeno in volontà) quello che ha vissuto, direttamente e non, chi oggi pontifica, spesso senza meriti effettivi, da comodi salotti televisivi. Non è colpa di nessuno se trent’anni fa non c’eravamo proprio tutti, compreso quel tanto bistrattato slovacco che non si può dire abbia scelto spontaneamente di giocare a calcio durante il periodo storico di absentia moralis più torbido della storia di questo sport. Una crisi causata da chi, invece, trent’anni fa c’era e come.

Perdonate lo sfogo, ma parlare di calcio è anche questo. E noi non parliamo solo di calcio.

Grande Marek.




 

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