Cinque anni che ci manca il piccolo grande Petiso

Se ne andò malaticcio 5 anni fa e sono 5 anni che ci mana quella faccia da scugnizzo argentino.

Arrivò a Napoli e già si affezionò da giocatore a quella maglia azzurra e a quella gente che gli ricordava la sua Argentina.

Visse tre vite nel golfo più bello del mondo, quello di Napoli.

Fu prima giocatore di una squadra che aveva tanti solisti, da Amedeo Amedei, il fornaretto, Vinicio o’ lion  e poi Hans Olof Jeppson, detto Hasse, per i napoletani ‘o Banco ‘e Napule.

Lui recitò la sua parte ,da grande istrione, legandosi a tutti ma soprattutto legandosi alla gente di Napoli che dopo una vittoria contro l’odiata Juve al Vomero lo portò in trionfo.

Non vinse lo scudetto con quella maglia ma vinse qualcosa di più importante.

Vinse l’amore di un popolo che in quel piccoletto, da cui il nome Petiso, vide un suo figliuol prodigo.

Finita la carriera di giocatore il nostro Petiso incominciò la carriera di allenatore.

La iniziò a Scafati ma il richiamo del Napoli fu troppo forte.

Il comandante Lauro lo richiamò al capezzale del  Napoli e lui non si fece pregare due volte come se una bella vecchia fiamma lo rivolese ancora.

Tornò e subito vinse facendo l’accoppiata promozione in serie A e coppa Italia.

Infatti la squadra azzurra, unica in Italia, vinse la coppa Italia a Verona contro la Spal mentre era ancora in serie B.

La settimana dopo il Napoli 1926 ritornava definitivamente in serie A dopo un sali e scendi dalla serie B.

Ebbe la gioia di allenare fuoriclasse della pedata come Sivori e Altafini, funambolici  giocatori dal tiro forte come Canè e Montefusco e lottatori e giocatori di personalità come Juliano e Panzanato.

Grande giocatore di poker insieme con Sivori combinarono scene teatrali  in cui puntualmente cadeva il presidente Roberto Fiore.

Entrambi facevano affidamento sulla grande generosità del presidente.

Come quella volta che divisero un assegno di 5 milioni di vecchie lire facendo credere al presidente che Sivori era arrabbiato perché aveva perso al tavolo verde.

Con Sivori e Altafini utilizzò la tecnica machiavellica del fine giustifica i mezzi.

Infatti rivolgendosi a Sivori diceva che era più forte del brasiliano mentre ad Altafini lo esaltava dicendo che era più bravo di Omar.

Così facendo riusciva ad esaltarne le qualità di entrambi.

Con i giornalisti si comportò come un affabile giocatore di poker bluffando ad ogni intervista.

Una volta aveva detto alla vigilia di una  sfida disse che la sua squadra avrebbe attaccato.

Alla fine della partita invece rispose a questa domanda:

“Mister ma la squadra avversaria vi ha chiuso nella vostra area” lui senza scomporsi con quella risata da scugnizzo, nel più bel senso della parola, rispose:

E che volete che vi dico ragazi, ci hanno rubati la idea”

Andò a Firenze dove vinse il suo tricolore.

Nel giorno del tripudio della squadra toscana  si ricordò del suo amore e disse:” Lo scudetto lo avrei voluto vincere con il Napoli”.

Ritornò e vinse la coppa Italia sconfiggendo il Verona per 4-1 a Roma. Andò a Bologna e poi ritornò nella sua Napoli.

Nel 1982 -83 tornò sulla panchina di un Napoli derelitto.

Grazie anche alla preparazione atletica di Gennaro Rambone portò alla salvezza il Napoli salvando anche quello che poi sarà l’avvento di re Diego due anni dopo.

Nel giorno della salvezza con le lacrime agli occhi disse che quella salvezza fu più importante dello scudetto a Firenze, ed in quel momento non bluffava.

Di quel periodo ci si ricorda del cappotto di cammello, dei baci alle croci e della doppia mano.

Infatti quando il portiere rimetteva in gioco il pallone, con una mano indicava di andare avanti e con l’altra posta dietro al cappotto faceva segno ai centrocampisti di restare indietro e loro sapevano che quella era la mano giusta.

Finito quell’anno miracoloso andò ad allenare la Campania Puteolana.

Poi con la sua immancabile sigaretta affumicò lo studio televisivo di Number Two offrendo pillole di saggezza umana e tattica ai fortunati presenti e ai telespettatori.

Poi la malattia prese il sopravvento e morì fragile ma pieno di soddisfazioni per una carriera indelebile che aveva fatto innamorare tutti del gioco più bello del mondo: il calcio

 

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