Il gol alla Juve, iconografia del primo Scudetto
Giuseppe Volpecina è una icona. Per anni, i tifosi del Napoli, hanno associato la sua immagine gaudente alla vittoria in casa della Juventus. Un evento raro. Almeno per quei tempi. L’atto con cui i partenopei prendevano possesso del Comunale di Torino, una domenica di tanti anni fa: il 9 novembre 1986. Era la nona giornata del girone di andata. Con la Juventus a 12 punti ed il Napoli a 11. Gli azzurri conducevano 2 a 1. A Laudrup, aveva risposto prima Ferrario e poi Giordano. Il forcing dei bianconeri, tutti riversati nella metà campo avversaria, a caccia del pareggio, fu mortificato da una ripartenza fulminea. All’ultimo minuto Carnevale, lanciato da Giordano, punta Favero, in campo aperto. Quaranta metri palla al piede, uno contro uno con il baffuto terzino, che “scappa” a protezione della porta. Con la coda dell’occhio, Carnevale “legge” la sovrapposizione di Volpecina, cui appoggia la palla nello spazio. Il tiro a giro del terzino, in corsa, è perfetto per tempo ed esecuzione tecnica. Una mortifera parabola di interno collo, carica di effetto, che muore là dove Tacconi, proteso inutilmente in volo, non può davvero arrivare. E’ la ciliegina sulla torta ad una giornata indimenticabile. Da quella domenica, infatti, il Napoli non avrebbe più abbandonato la vetta della classifica. Una esaltante favola tinta di azzurro. Con epilogo festante, il 10 maggio 1987. La conquista del primo Scudetto. “In effetti, mi capita spessissimo di incontrare qualcuno che quel giorno era a Torino e mi racconta emozionato il momento in cui segnai. Dopo il gol cominciai a correre, come impazzito. La gioia era incontenibile. Un momento indimenticabile. Anche se devo riconoscere che tra i più bei ricordi della mia carriera c’è la partita di ritorno. Ero in uno stato di forma eccezionale. Vincemmo 2 a 1. Credo che quella sia stata la migliore partita che abbia mai disputato. Una prestazione perfetta”.
Koulibaly ha cambiato la corsa al titolo di Campioni d’Italia
Per anni, il gol di Volpecina alla Juventus si è fissato negli occhi e reso permanente nel ricordo della gente. Custodito come una reliquia. Prima che Koulibaly ne espropriasse il significato. L’imperioso stacco di testa con il quale, la scorsa settimana, il senegalese ha sancito la presa dell’Allianz Stadium e riaperto – de facto – la corsa allo Scudetto, acquisisce lo stesso valore simbolico di quello segnato ben trentadue anni fa dal terzino di Caserta. Oggi, come allora, c’è una sottile convinzione. Resa tenue soltanto dal punticino di vantaggio mantenuto in classifica dai bianconeri. Ma carica di aspettative, in vista delle prossime quattro giornate di campionato. Specialmente, alla luce della feroce determinazione con la quale la squadra di Sarri ha affrontato lo scontro diretto con la capolista. Rendendo tutto da scrivere il finale di una stagione, che altrimenti era già pronta a mandare i titoli di coda. “Il Napoli visto contro la Juventus mi ha meravigliato. Nell’ultimo mese aveva dimostrato meno brillantezza, rispetto alla squadra che aveva entusiasmato con il suo gioco, nel girone di andata. Contro i bianconeri, invece, si sono tornati a vedere ritmi alti e pressing asfissiante. Andare a Torino e mortificare la Juventus è sinonimo di sicurezza nei propri mezzi. Oltre che di mentalità vincente. I bianconeri sono stati letteralmente annientati dal Napoli, che non ha consentito agli avversari di passare la metà campo con facilità. E neppure di fare tre o quattro passaggi di fila, senza potersi sottrarre alla pressione degli azzurri”. A giudicare da quello che si è visto all’Allianz Stadium, quindi, si possono tranquillamente dare i numeri. “Se dovessi sbilanciarmi, penso che il Napoli possa avere, in percentuale, un piccolo vantaggio rispetto alla Juventus. E’ vero che i bianconeri mantengono un punticino di vantaggio. Ma in questo preciso momento della stagione, vista la loro condizione fisica e mentale, non farei a cambio. Neppure se me lo chiedessero. Il gruppo allenato da Sarri ha capito cosa significherebbe raggiungere l’obiettivo. Una cosa unica, non immaginabile. Una emozione che ho provato personalmente. E che non è spiegabile a parole”.
Il calendario alleato del Napoli. Ma occhio alla Fiorentina
E’ ragionevole pensare che sull’incertissimo inseguimento al titolo di Campione d’Italia risulterà determinante l’influenza del calendario. Volpecina ne è certissimo. “Sono convinto che da qui alla fine, nessuna delle squadre che dovranno affrontare Napoli e Juventus regalerà nulla. Credo anche che potrebbero essere fondamentali le trasferte. In particolare, i bianconeri ne avranno due insidiose, contro squadre ancora in piena corsa per un posto in Champions: l’Inter e la Roma. L’Inter è una squadra quadrata, forte fisicamente. Già all’andata ha imposto il pareggio ai bianconeri. Che, dal canto loro, ultimamente passano da un eccesso all’altro. Pure il Napoli affronta un avversario difficile. La Fiorentina è una buona squadra, allenata da un tecnico preparatissimo. Stefano Pioli non solo mette bene la sua squadra in mezzo al campo. Ma è un profondo studioso degli avversari; abile nel trovare le contromosse ai punti di forza di chi si trova davanti. Chiaramente, se gli azzurri dovessero affrontare la gara di Firenze con la stessa mentalità, voglia e consapevolezza di Torino, il pronostico sarebbe tutto a loro favore. Non penso che, dopo lo sforzo fatto per rientrare in corsa, la squadra potrebbe commettere l’errore di rilassarsi…”.
La Viola, viatico di una bella avventura. Con un rammarico finale
A proposito di Viola. Volpecina è un ex. Con la Fiorentina, infatti, ha giocato due stagioni. La prima (1989-90), esaltante. Specialmente nelle campagna europea. La seconda (1990-91), un po’ meno. Accantonato. Messo nel dimenticatoio, non si sa bene per quale motivo, da Lazaroni. Sbarcato sulle rive dell’Arno, dopo un Mondiale un po’ sotto tono, alla guida del Brasile. “Il primo anno a Firenze arrivammo alla doppia Finale di Coppa Uefa, persa contro la Juventus. All’epoca era una sorta di Champions League, perché soltanto chi vinceva il campionato, andava poi in Coppa dei Campioni. Tutte le altre grandi squadre europee dovevano disputare la Uefa. Era una manifestazione assai competitiva. Ricordo che, causa lavori di ristrutturazione del Franchi, in vista dei Mondiali del ’90, la dovemmo giocare tutta in campo neutro, a Perugia. La città ci aveva accolto con entusiasmo e lo stadio era sempre pieno. A distanza di tanti anni, però, ho qualche rammarico, per come andò a finire”. La cronaca del tempo è impietosa e trasmette ai posteri una decisione draconiana, tipica della burocrazia nella quale si impantanava la Uefa, in quel periodo. Nella semifinale di ritorno, la Fiorentina batte i tedeschi del Werder Brema, grandi favoriti per la vittoria finale, dopo aver estromesso dalla competizione i detentori del trofeo: il Napoli di Maradona. Un attimo prima che l’arbitro fischiasse la fine dell’incontro, i tifosi si riversarono in campo per festeggiare, convinti che la gara fosse già terminata. La partita riprese dopo pochi minuti e fu portata regolarmente in porto. Ma la squalifica obbligò la Viola a disputare la finale di ritorno in campo neutro. Ad Avellino. Notoriamente, un feudo bianconero. “La società fece di tutto per giocare altrove, magari a Verona, con la quale c’era un gemellaggio. Ma non fu possibile. Eppure, nelle due partite con la Juve non demeritammo. All’andata, pur perdendo 3 a 1, giocammo alla pari e Stefano Tacconi fu il migliore in campo: in almeno due occasioni bloccò Roby Baggio, solo davanti a lui. Poi il terzo gol di Casiraghi era palesemente macchiato da un fallo su Celeste Pin. Al ritorno, la Juve si difese molto bene. E ancora Tacconi salvò una clamorosa occasione su Baggio. Chissà, se Roby avesse segnato almeno un gol, come sarebbe andata a finire…”. Quella era sicuramente una bella Fiorentina. Dalle indiscutibili qualità umane e tecnico-tattiche. Non a caso, di quel gruppo, sono in tanti che hanno scelto di allenare. Una volta appesi gli scarpini al classico chiodo: Dunga, Iachini, Pioli, Landucci (il tattico di Allegri, n.d.a.).
Il Divin Codino, Elkjaer e Caniggia. Bagnoli e Ottavio Bianchi
Nella sua carriera, Volpecina ha avuto la possibilità di incontrare tantissimi personaggi interessanti. Il Divin Codino. “Ritengo Roby Baggio uno dei migliori tre giocatori mai prodotti dal calcio italiano. Con delle doti tecniche meravigliose. Forse, caratterialmente troppo buono, per il mondo del calcio. Chissà cosa sarebbe potuto diventare con un pizzico di cattiveria in più e senza gli infortuni alle ginocchia. I napoletani si ricorderanno sicuramente di quel gol fantastico e spettacolare che realizzò proprio al San Paolo”. E’ il 17 settembre 1989 e Roby Baggio ferma il tempo per attraversare tutto il campo, dalla sua area, fino alla porta opposta. Mettendo letteralmente con il sedere per terra metà squadra azzurra. Prima di mortificare Giuliano Giuliani con una finta ubriacante e spostandosi la palla con la suola. La cd. “ruleta”. Un gol da brividi. Al cospetto del Re del Calcio. Nella sua casa. Davanti alla sua gente. “Sono stato testimone di un gol identico, fatto da Roby a Licata, in Coppa Italia, nell’agosto dello stesso anno. Solo che, rispetto a quello di Napoli, Baggio scartò il portiere siciliano ben due volte di seguito. La cosa divertente fu che non potemmo riprendere a giocare per almeno cinque minuti. A causa degli applausi ininterrotti del pubblico locale. Qualcosa di veramente indescrivibile”. Preben Larsen Elkjaer e Claudio Caniggia. “Due attaccanti assai diversi. Oggi uno come Elkjaer, capace di abbinare tecnica individuale e forza fisica, varrebbe non meno di 70/80 milioni di euro. Soffriva un po’ le marcature strette, quelle di una volta. Ma con gli spazi che concedono oggi le difese, sarebbe andato a nozze. Caniggia, invece, era imprendibile. Aveva una velocità impressionante. Ci ho giocato assieme a Verona. Dopo, mi è capitato di doverlo marcare, da avversario. Dovevi solo cercare di anticiparlo. Ma se riusciva a rubarti il tempo e partiva, non lo prendevi più. E anche vero che una volta, i difensori come me potevano permettersi qualcosina in più, nei confronti dei diretti avversari”. Ottavio Bianchi e Osvaldo Bagnoli. “Bianchi era l’allenatore dello Scudetto a Napoli. Con Bagnoli, invece, ho lavorato i due anni di Verona. Diversi come allenatori, ma molto simili come personalità. Concreti e poco propensi a crearsi un personaggio. Preferivano la cultura del lavoro sul campo, alle parole. In sostanza, poche chiacchiere e tanti fatti, per raggiungere l’obiettivo prefissato a inizio stagione!!!”. Chiaramente, è inutile pure rimarcarlo. Ma nella personalissima classifica di gradimento stilata da Volpecina, il Re occupa un posto a parte. Indubbiamente, fuori classifica…
Doppia Coppia… quasi “vestita”
Non tutti sanno che Volpecina è titolare di uno buffo primato. Nella stagione 1986-87 partecipa da protagonista al doblete: la vittoria del Campionato, cui associa pure la conquista della Coppa Italia. Non tutti sanno, però, che quasi dieci anni prima era andato vicinissimo a precorrere i tempi di quella meravigliosa accoppiata. “Sono cresciuto nel vivaio del Napoli, dove ho fatto tutta la trafila, fino alla Primavera. Quello era un gruppo fantastico. Nel 1977-78 perdemmo la Coppa Italia, nella doppia finale, contro l’Inter. Il rammarico è dovuto al fatto che mentre noi eravamo tutti ragazzi del ’61, i nerazzurri schierarono un mucchio di fuori quota, tra cui Beppe Baresi (classe ’58) e Odoacre Chierico (classe ’59). L’anno dopo ci rifacemmo e diventammo Campioni d’Italia, nella finale con il Torino. L’allenatore era Mariolino Corso. In squadra c’erano Di Fusco, Celestini e Raimondo Marino. Con i quali poi ho vinto lo Scudetto nell’86 (Marino, però, a gennaio fu ceduto alla Lazio, n.d.a.). A Proposito, mi viene in mente una battuta fatta da qualcuno di quel gruppo. Quando tornai dal Pisa, non ricordo bene chi, disse che aspettavano soltanto il mio ritorno al Napoli, per cominciare a vincere. Quella Primavera era davvero fortissima. Ne facevano parte pure Musella, Vincenzo Marino, Amodio e Maniero. Tutti giocatori che poi hanno avuto un percorso professionale importante tra i professionisti”. Il ricordo della gioventù calcistica è l’unico momento in cui la voce di Volpecina perde un colpo. Traspare evidentissima la sensazione che quegli anni siano stati determinanti, nel suo processo di formazione e crescita. Come calciatore e come uomo. “Credo di essere capitato nel settore giovanile del Napoli nel momento migliore per un calciatore. Non solo per le vittorie. Ma per come si lavorava e si formavano i giovani. Ho avuto la possibilità di incontrare in quegli anni dei veri e propri maestri, non solo degli ottimi allenatori. Riccardo De Lella con gli Allievi, Mario Corso in Primavera. E Angelo Sormani, che mi fece debuttare in serie A!!!”. La storia è nota. Al tramonto di un anonimo campionato 1979-80, condotto senza infamia e senza lode a metà classifica, Ferlaino esonera Luis Vinicio ed affida a Sormani una squadra da traghettare, nelle ultime quattro giornate. La prima cosa che Sormani si appresta a fare, è travasare un gruppo di giovani speranze, dalla Primavera. E così, il 12 aprile 1980, a Torino, sponda granata, Volpecina fa il suo esordio in serie A. “In effetti, l’esordio era un po’ nell’aria, perché da tempo ero aggregato alla Prima Squadra. Non tutti sanno, però, che le scelte di Sormani, in un certo senso, ci impedirono di ripeterci, con la Primavera. Perdemmo con la Fiorentina, che poi si laureò Campione. Ma in tanti, di quel gruppo, ormai erano in pianta stabile con Sormani, in orbita serie A e non potemmo affrontare nel migliore dei modi lo scontro con i Viola”.
Francesco Infranca