Massimiliano Favo è sempre stato un leader. Sin dal suo esordio, poco più che maggiorenne, nel Napoli di Maradona. Non a caso, la tesi con la quale nel 2010 s’è laureato a pieni voti al SuperCorso di Coverciano, porta un titolo emblematico: “Qualità psicologiche del leader”. Questa caratteristica l’ha poi accompagnato in tutte le tappe della sua carriera, quasi ventennale. Palermo, Ascoli, Ancona sono solo alcune delle squadre in cui ha guidato in maniera silenziosa i compagni, conquistandone il cuore e la mente. Piuttosto che a parole, con la forza dell’esempio. E non necessariamente, dopo aver ricevuto l’investitura ufficiale di capitano. Perchè una nomina può renderti temporaneamente un leader. Ma un vero capo è qualcuno che gli altri prendono a modello. Certamente, il ruolo ne ha favorito l’ispirazione. Giocare davanti alla difesa ha significato farsi affidare sempre le chiavi del gioco della propria squadra, diventando il primo riferimento dei compagni in fase di impostazione. Favo però ci ha messo del suo, per divenire giocatore cruciale. A prescindere dalla posizione ricoperta in campo.

La serie A con il “primo” Napoli di Maradona

Dopo aver fatto tutta la trafila nel settore giovanile del Napoli, Favo esordisce in serie A per volontà di Rino Marchesi. E’ la stagione 1984-85: il primo anno di Diego Armando Maradona all’ombra del Vesuvio. Il ricordo del Re è indelebile. “Mi è capitato spessissimo di ascoltare pareri su Maradona. E tutti sono incentrati sul giocatore. Non nascondo che in alcune circostanze, durante le partitine infrasettimanali, dopo una giocata particolarmente spettacolare, ci fermassimo ad applaudirlo. Faceva cose che non ti aspettavi. Era impossibile prevenirne in qualche maniera i movimenti. Però, credo che debba essere rimarcata anche la sua enorme personalità. Inquadrarne l’umanità, nel rapporto con i compagni di squadra, farebbe comprendere meglio quanto questa caratteristica sia stata fondamentale per far vincere quel Napoli“.

L’inclinazione naturale di Maradona a provare vero interesse verso il prossimo ha impressionato Favo, ben più delle magie prodotte dall’argentino. In allenamento, prima ancora che in partita. “Nel calcio attuale ognuno pensa a sè stesso. Maradona, invece, si faceva carico dei problemi e delle necessità altrui. Anche dei giovani aggregati alla prima squadra, come il sottoscritto. Si preoccupava davvero che non ci mancasse niente. Non era raro, quando il suo sponsor personale gli consegnava il materiale tecnico, che ne distribuisse un pò a tutti. E durante la settimana, nel momento in cui venivano elargiti i premi partita, voleva controllare personalmente che la busta contenesse la percentuale giusta spettante a ciascuno di noi ragazzi!!!“. 

Nei due anni trascorsi con il Napoli, Favo acquisisce la stima e la considerazione di tutto l’ambiente.  E pur non riuscendo a ritagliarsi un minutaggio elevatissimo, mette comunque a referto 10 presenze in serie A. “A quei tempi, numericamente, le rose venivano ristrette a diciotto giocatori. Quindi, era una vera e propria necessità che il settore giovanile producesse giocatori. Era sicuramente un calcio diverso: c’erano solo due stranieri, ed i giovani italiani potevano affacciarsi progressivamente in prima squadra“. Su come e quanto sia cambiato il sistema di reclutamento e formazione del talento, Favo ha una idea precisa. “Penso che il calcio italiano, malato di esterofilia, abbia lasciato una strada, che aveva prodotto i suoi frutti: quella della qualità tecnica. Per seguire una via alternativa. Magari più facile da percorrere nell’immediato. Ma meno redditizia, a medio e lungo termine. Quelli della mia generazione sono cresciuti con il principio della evidenza, attraverso il quale, dei veri e propri Maestri, come Riccardo De Lella e Angelo Sormani, dimostravano una gamma di esercizi tecnici di base. In più, c’era tanta meritocrazia. A fine stagione, venivi giudicato in base a quanto fatto e promosso alla categoria successiva. Oppure, bocciato e svincolato…”.

I complimenti di Bruscolotti e la stima di Allodi

Dall’album di Massimiliano Favo, saltano fuori due ricordi indelebili. Il primo, legato ad una partita di Coppa Italia. Era il 27 febbraio 1985 ed il Napoli giocava il ritorno degli Ottavi, contro il Milan. All’andata, era finita 2 a 1 per i rossoneri. Quella sera, davanti a 70mila spettatori speranzosi di ribaltare le sorti dell’incontro, Favo sfiorò l’impresa. “Entrai sul risultato di 1 a 1 e poco dopo il mio ingresso in campo mi capitò un’occasione limpida…”. In effetti, chi era al San Paolo quella sera, ricorderà non solo la sfacciataggine con la quale Massimiliano si confrontò con un mostro sacro del ruolo, Agostino Di Bartolomei. Ma pure la staffilata dai trenta metri e la palla che si stampava in pieno sulla traversa. Lasciando Giuliano Terraneo basito ed i legni della porta tremanti. “L’episodio divertente, però, fu un altro. Negli spogliatoio mi si avvicinò Beppe Bruscolotti sorridente, chiedendomi se avessi voluto veramente mandare la partita ai supplementari!!!“.

L’altro ricordo è ancora più struggente. Perchè legato ad un personaggio che tanto ha dato al calcio italiano ed alla costruzione di quel Napoli: Italo Allodi. L’episodio risale alla seconda stagione di Maradona. Il 24 novembre 1985, a Fuorigrotta, è di scena l’Udinese. La partita si mette subito in discesa per gli azzurri. Il Re la sblocca dopo pochissimi minuti. Beffa Fabio Brini direttamente su calcio di punizione, da posizione defilatissima. Poco dopo, Maradona subisce un bruttissimo, quanto inutile, fallo da Antonio Criscimanni. Defilato sulla linea laterale, nella trequarti napoletana, colpisce da tergo l’argentino. La cui reazione non si fa attendere: violenta testata ed espulsione diretta. Con il Napoli ridotto in dieci, nella ripresa i friulani pareggiano con Galparoli.

Ma la partita di Favo non finisce sottotraccia. La qualità delle sue giocate, quel pomeriggio, dimostrano che il giovane centrocampista possiede abilità tecnico-tattiche notevoli. Semplicemente, ha bisogno di palesarle con una certa continuità. “Negli spogliatoi, nel dopo partita, Allodi disse davanti a tutti che aveva visto il nuovo Giancarlo Antognoni…”. Questo è l’unico momento in cui, nel tono di voce di Favo, pare esserci una incrinatura di rimpianto. “Allodi mi stimava. Nonostante ricoprissi un ruolo strategico, quello di centrocampista centrale, credeva moltissimo in me. Forse, se non avesse avuto quell’incidente, il Napoli mi avrebbe aspettato ancora un pò e la storia della mia carriera preso una piega diversa. Per onestà, però, devo aggiungere che nel calcio si prende ciò che si vale. Almeno secondo il mio punto di vista!!!”.

La volata scudetto ed il centrocampo di Sarri

Da allenatore, primo classificato nel suo Corso del 2010, Favo non può esimersi dal fare un passaggio sulla lotta scudetto. Tra il Napoli e la Juventus, vista la sua storia, è innegabile per chi faccia il tifo. Tuttavia, preferisce non esprimersi. D’altronde, la pacatezza con la quale affronta la gestione della panchina emerge chiaramente dal principio che ne ispira la professione (“Alleno per trasmettere le mie idee di calcio e non necessariamente per fare carriera!!!“). Pur essendo in antitesi con il modo di schierare le sue squadre (“Come il Napoli di Sarri, anche io prediligo un calcio propositivo, fatto di grande qualità e movimento. Un sistema di gioco nel quale non ci sia un attaccante di struttura. Preferisco la mobilità e non dare punti di riferimento ai difensori avversari...”). Ecco che la sua considerazione sulla corsa al titolo di Campione d’Italia pare andare in controtendenza rispetto al pensiero generale. “Può sembrare strano, ma baratterei lo scudetto di quest’anno, se per assurdo potessimo avere in cambio una struttura adeguata alle ambizioni della squadra. In questa maniera si potrebbero mettere le basi per provare a vincere con continuità nel prossimo futuro. In questo momento la Juventus appare inavvicinabile. Proprio perchè ha una struttura e una organizzazione solida alle spalle“.

Svezzato tatticamente dalla frequentazione con due magistrali interpreti del ruolo (Salvatore Bagni ed Eraldo Pecci), Favo pone l’attenzione sulla linea mediana del Napoli. In cui Jorginho e Diawara, anche per effetto delle diverse caratteristiche fisiche, interpretano il ruolo di metodista in maniera assai diversa tra loro. “In alcune movenze, mi rivedo in Jorginho; che è bravissimo nell’attuare il calcio che vuole Sarri. E’ affidabile nella costruzione e bravo nell’interdizione e nell’intercetto. Su Diawara, invece, ho una mia idea: ha fatto bene, specialmente nelle gare di Champions, contro determinati avversari. Adesso è in difficoltà. Preferisce spesso il passaggio in orizzontale, piuttosto che la verticalizzazione immediata, come il brasiliano. Ma va sicuramente aspettato. Anche se per tempi di gioco e capacità di portare pressione al portatore di palla avversario, al momento Jorginho si fa preferire!!!“.

Abbiamo corso il rischio di non vedere Zola al Napoli

Nel corso della sua ventennale carriera in giro per l’Italia, Favo ha incontrato tantissimi giocatori e allenatori che, prima o dopo, hanno intrecciato il loro percorso professionale con il Napoli. I nomi sono davvero tanti. Su uno in particolare, occorre soffermarsi, aprendo lo scrigno dei ricordi. Nel 1988-89 il Napoli cede Favo in prestito alla Torres.

Dove incontra Gianfranco Zola. Il centrocampista napoletano ed il tamburino sardo si dividono gli estremi del centrocampo rossoblù. Uno basso davanti alla difesa. L’altro a ridosso delle punte, nella trequarti avversaria. La squadra allenata da Francesco Liguori è la vera sorpresa del girone B della C1. Sfiora una storica promozione, classificandosi al quarto posto. La stagione memorabile trascorsa in Sardegna fa da trampolino di lancio per le ambizioni di alcuni. L’anno dopo, infatti, Liguori viene ingaggiato dal Palermo. E pretende di portare con sè Favo, per gestire la regia dei rosanero. Zola, invece, sbarca a Napoli. Per lui è pronto il ruolo di vice Maradona.

Su tutta questa storia incombeva una grossissima Sliding Doors. La vita dei protagonisti avrebbe potuto prendere una dimensione parallela, cambiando radicalmente i loro destini. “La storia è questa. Io e Zola dovevamo andare al Brescia. Il direttore sportivo delle rondinelle, Riccardo Sogliano aveva seguito entrambi per tutta la stagione e pare avesse già una sorta di accordo con Luciano Moggi. Non se ne fece più nulla, anche perchè il Napoli ritenne più opportuni far maturare Zola a stretto contatto con Maradona. Dal canto mio, mi sentivo pronto per essere responsabilizzato al massimo come centrocampista. Le insistenze di Liguori fecero il resto. E così andai a Palermo!!!”. In Sicilia, anni memorabili: la fascia di capitano, 2 promozioni dalla C1 alla B e 1 Coppa Italia di serie C. Da lì in poi: Ascoli, Ancona, Lucchese. Ma questa è un’altra storia…

Francesco Infranca

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