L’arrivo di Maurizio Sarri sulla panchina della Lazio, nell’estate del 2021, rappresenta simbolicamente la transizione da una guida conciliante nello spogliatoio, da fratello maggiore, come quella portata avanti da Simone Inzaghi, ad una più esigente. Il “Comandante”, infatti, sembra aver imposto da subito non solo il suo progetto tattico. Ma obbligato pure l’intero gruppo biancoceleste a rimettersi totalmente in discussione, accantonando i concetti del predecessore.

Una rivoluzione sul piano ideologico, che ha costretto la squadra ad abbandonare la comfort zone rappresentata dall’influenza di Inzaghi, e l’impronta evidente del 3-5-2. Quel calcio diretto e verticale, in grado di esplorare la profondità, esaltando Ciro Immobile, a favore di un sistema maggiormente creativo. Il cd. “Sarrismo”, orientato al palleggio compulsivo ed alla ricerca ossessiva della rifinitura.

Almeno inizialmente l’ambiente romano ha generato un equivoco di fondo, alimentando la contrapposizione tra il vecchio ed il nuovo allenatore. Al punto da strumentalizzarne l’ingaggio. Una storia d’amore tormentata, dunque.

Ritmi bassi e poca intensità

Uno stillicidio che, a turno, considerava taluni giocatori inadatti a calarsi appieno nella filosofia di Sarri; piuttosto che l’allenatore incapace di trasmettere i suoi princìpi al gruppo.

In effetti, nella stagione passata, la Lazio non ha mai occupato con costanza la metà campo avversaria, manifestando una certa fatica ad assimilare il passaggio al 4-3-3. Talvolta la qualità del gioco espresso è stata abbastanza deludente. Con le migliori occasioni nate da transizioni lunghe o verticalizzazioni immediate.

Traumatico specialmente per chi era abituato a ritmi bassi e cadenzati; nient’affatto rodato, quindi, alla intensità ipercinetica professata dal tecnico toscano. Uno scenario aggravato dalla latitanza delle combinazioni in fascia.

Spesso la costruzione seguiva tracce scolastiche: giropalla tra difensori e metodista. Poi, avanzamento del pallone con gli spunti individuali di Felipe Anderson o gli strappi di Milinkovic-Savic.   

In determinate partite la passività nel pressing alto ha impedito di schierare assieme Lucas Leiva – ormai in là con le “primavere”, il pivote brasiliano conteneva gli scivolamenti laterali – Milinkovic e Luis Alberto. Sacrificando lo spagnolo sull’altare degli equilibri, a favore di una mezzala dall’indole decisamente faticatrice come Basic. Se non addirittura un mediano tutto corsa e fisico tipo Akpa Akpro.

Sacrificio e coperture

Quest’anno Sarri pare abbia accettato, nemmeno tanto controvoglia, la sfida di rinnovarsi, pur rimanendo sostanzialmente sé stesso. Ricostruire dall’interno, partendo però dal lavoro iniziato l’annata scorsa. Qualcosa a metà tra il desiderio recondito di rivalsa e la visione di realizzare la medesima utopia palesata nel triennio all’ombra del Vesuvio.

Una sorta di compromesso, per cui la squadra sviluppa la fase d’attacco attraverso le devastanti ripartenze di Milinkovic, l’unico vero centrocampista box to box in rosa. Arricchendo comunque il repertorio offensivo con quei proverbiali movimenti da centravanti di manovra, che ripiega sotto la linea della palla con grande generosità. Caratteristica che Immobile magari utilizzava poco durante la precedente gestione.

Probabilmente perché oggi la Lazio non va disperatamente in affanno in mezzo al campo, grazie al dinamismo di Cataldi. Un centrocampista di lotta, che tappa i buchi con il giusto timing; soprattutto le volte che scala verso l’esterno, in copertura preventiva. Ed al contempo, di governo: bravo ad alimentare efficacemente la progressione dell’azione con giocate sul breve, stimolando i flussi tipici del possesso sarrista: palla avanti-dietro-dentro.

I biancocelesti restano una squadra pericolosa, da affrontare con le dovute cautele. Pur essendo lontana dalla “creatura” di Sarri, che qualche anno fa manipolava a suo piacimento gli avversari.

Insomma, dalle parti del Cupolone, il Napoli dell’Estetica Trascendentale e dei 91 punti appare ancora un sogno difficilmente riproponibile.

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