A Napoli sembra che qualcuno sia afflitto dalla sindrome dell’erba del vicino. Una sorta di psicosi esasperante, in grado di suscitare invidia in una nicchia di tifosi e addetti ai lavori per ciò che possiedono gli altri. Apprezzando sin troppo il lato opposto della recinzione, piuttosto che il proprio prato verde.

Costoro hanno definito in maniera sprezzante la Conference League alla stregua di una “coppetta”, invece la vittoria della Roma a Tirana non deve essere affatto snobbata. Derubricando, dunque, la terza competizione europea come figlia di un Dio minore.

E’ invero che nelle intenzioni della Uefa, almeno nella fase iniziale, il trofeo sia nato per dare uno sbocco alle Leghe “minori”, garantendogli una vetrina continentale. Altrimenti club privi di tradizione e forza economica non avrebbero mai potuto assaporare la gioia delle Coppe.

Chiaramente, l’entrata in gioco delle squadre retrocesse dall’Europa League, all’atto delle gare a eliminazione diretta, rende maggiormente appetibile la neonata competizione, aumentandone in modo esponenziale il livello competitivo. Del resto, è un meccanismo che carica di fascino la stessa Europa League, con le “bocciate” dalla (ex) Coppa dei Campioni, terze nei gironi, costrette a indietreggiare di uno scalino.

Vincere fa bene all’anima

Impossibile condividere questo atteggiamento distaccato. La sufficienza con cui taluni ostentano una massiccia dose di superiorità, neanche Mourinho ed i suoi ragazzi non abbiano conquistato con pieno merito il diritto a iscrivere il loro nome nell’albo d’oro nella neonata Coppa.

Partiamo da un presupposto: vincere fa bene all’anima. Soddisfa l’ego di calciatori e allenatori. Arricchisce la bacheca di un club, rendendolo al contempo, allettante agli occhi dei potenziali nuovi acquisti.

Insomma, alzare al cielo un trofeo, accompagnandolo con il classico sottofondo musicale scandito dai Queen, l’emozionante “We Are The Champions” che non passa mai di moda, è bello come poche altre cose, calcisticamente parlando.

In questo scenario, lo Special One ha rivestito un ruolo fondamentale, veicolando nell’intero ambiente capitolino l’idea che la Conference fosse in ogni caso qualcosa di entusiasmante. Equiparabile ai tantissimi tituli che già ne arricchiscono il palmarès. Da inseguire, quindi, con determinazione e applicazione feroce.

Ricapitolando, quando si gioca, bisogna necessariamente farlo per (provare a…) vincere. Un sentimento nient’affatto frustrate. Che sicuramente non alberga nei cafoni…

CL poco seducente per il Napoli

Sostanzialmente voler vincere è un’aspirazione legittima. Così la Roma ha fatto benissimo a giocarsela fino in fondo, immedesimandosi nei giovedì europei, manco fossero match da Coppa dalle Grandi Orecchie. Verrebbe da aggiungere che il medesimo approccio dovrebbero averlo sempre le squadre italiane. Specialmente quelle che guardano all’Europa League non come un’opportunità. Bensì, come un fastidio.

Consideriamo pure l’altra faccia della medaglia. La Serie A iscrive alla Conference League chi, la stagione precedente, s’è classificato al settimo posto. Piazzamento che certifica un campionato decisamente ai limiti del fallimentare. Lontano anni luce dalle posizioni che contano veramente.

Tornando al Napoli, sarebbe auspicabile non vederlo ancora per molti anni in questa “seducente” rappresentazione calcistica.

Che poi l’obiettivo prioritario di presidenti vari e proprietari assortiti sia la opulenta Champions, viatico imprescindibile per assicurarsi soldi a palate, rimpinguando il bilancio. Mentre Europa League e Conference distribuiscono magri guadagni alle casse societarie, sono considerazioni che ai tifosi interessano marginalmente.

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