Alla vigilia del match contro la Svizzera una fetta consistente della critica aveva sottolineato come la differenza con l’Italia non fosse poi così sbilanciata a favore degli uomini di Spalletti. Gli elvetici, infatti, hanno dimostrato di essere una delle migliori squadre nella fase a gironi dell’Europeo: assai duttile, in grado di adattarsi alle esigenze. Dotata in ogni caso di alcune buone individualità, che finiscono per esaltarsi all’interno di un sistema di gioco organizzato. Tra le altre cose, supportato da una eccellente preparazione fisica.

Sostanzialmente, un avversario da prendere decisamente con le molle. Perciò il commissario tecnico aveva sorpreso un po’ tutti, con le sue scelte di formazione. Rinunciando al sistema fluido che ne aveva caratterizzato la prima parte della rassegna continentale, in favore di un ben più tradizionale ed equilibrato 4-3-3. Tornare alla difesa a quattro la soluzione per correggere ciò che magari finora non ha funzionato a meraviglia. Nonostante Di Lorenzo non stia brillando e Darmian sull’altro lato non deve far rimpiangere la spinta di Dimarco.

Il tema dei cambi attuati dall’Uomo di Certaldo è il primo punto da cui partire. Al netto delle certezze Bastoni e Barella, il c.t. ha ruotato le risorse a disposizione, chiamando in causa El Shaarawy e Mancini, che non avevano ancora esordito in Germania. Preferendo Fagioli a un Jorginho, alle corde sul versante della condizione fisica. Con anche Pellegrini lontano da uno standard di rendimento almeno accettabile, evidente fosse giusto il passaggio di testimone con Cristante, per innervare la mediana grazie a un centrocampista di copertura, dai piedi pure educati. Rinnovata la fiducia nei confronti di Chiesa e Scamacca, per dare una vera sterzata là davanti. Retegui con la Croazia s’era sbattuto senza sosta. Ma il centravanti dell’Atalanta, accantonata quella endemica svogliatezza le volte che non viene servito o coinvolto continuamente, rimane di livello superiore al genoano.  

Il gioco fluido di Yakin  

Un ritorno all’antico quello di Spalletti, nel tentativo di contrastare le rotazioni costanti della squadra di Yakin. La cui particolarità risiede proprio nell’occupare il campo con tre difensori supportati da due centrocampisti in costruzione. E il resto dei giocatori più alti a garantire l’ampiezza e saturare contemporaneamente i corridoi centrali. Una precisa identità, funzionale a scambiarsi la posizione. Ergo, spostarsi, cercando di portare con sé l’uomo di riferimento. Svuotare gli spazi e consentire ai compagni di muoversi verso le zone che si liberano.

Insomma, l’anima e l’energia della Svizzera sembravano giustamente temibili: i principi che le ha dato Yakin sono abbastanza delineati. L’esterno mancino a tutta fascia è Aebischer, che abbiamo imparato a conoscere nel Bologna. Un ruolo inedito, poiché in rossoblù agisce essenzialmente da interno. Sulla catena destra, per sostituire lo squalificato Widmer, il c.t. svizzero schiera l’altro bolognese Ndoye. Che ha caratteristiche propositive, così da rendere comunque imprevedibile lo sviluppo della manovra. Ma l’indole dei rossocrociati rimane quella di ruotare. Dunque, spesso tocca a Rubén Vargas occupare l’ampiezza a sinistra. Medesime letture sofisticate di Rieder sul versante opposto, con la mezzala del Rennes che stringe ed i giocatori rossoblù che a turno si buttano dentro, agendo da sottopunta.        

Primo tempo in sofferenza  

Copione già visto. Noi soffriamo, lenti e prevedibili, carenti addirittura nella gestione del pallone. Nonché passivi nella fase di non possesso. Il dinamismo degli Svizzeri produce gioco con grande personalità. E azioni potenzialmente pericolose. Alla Nazionale manca la precisione con la palla ed il coraggio senza. Rimane a metà del guado, né ferocemente determinata nel pressing. Tantomeno attenta e compatta difensivamente. Tra il gol di Freuler, strepitoso nello sganciarsi, e ricevere la sponda, offrendo una visionaria linea di passaggio al centravanti di spalle alla porta, null’altro che il solito “fenomeno” Donnarumma, ad allontanare le nuvole che si addensano nerissime. Prodigioso al 24’ su Embolo, e al 45’ quando inchioda letteralmente una punizione assassina di Rieder

Un primo tempo con punti deboli piuttosto riconoscibili. Scamacca su Akanji per forzare la giocata sul lungo è l’unico che esce aggressivo. L’Italia sul primo tocco non porta pressione. Così, Schär, lo stesso Akanji e Ricardo Rodriguez conducono in situazione di palla scoperta. L’abilità nella prima costruzione è bella ed efficace. Sommer diventa l’opzione iniziale. Dopo tocca a Xhaka farsi vedere in zona luce. L’idea rimane quella di attrarre l’Italia, in modo da allungarla. Stimolando poi le verticalizzazioni. Per tamponare le imbucate, gli Azzurri restano bassi. Però decisamente troppo schiacciati. Forse si poteva rompere la linea, tentare anticipi e intercetti, tamponando le ricezioni tra le linee, aggredendo in avanti sui riferimenti svizzeri che si inserivano. Ma la qualità della Svizzera rendeva (quasi…) impossibile pressarli con gli scivolamenti.

Secondo tempo disperato  

La cattiva notizia, appena cominciata la ripresa, è la rete di Vargas, che chiude praticamente la contesa. Altro che atteggiamento attento nel negare imprevedibili inserimenti agli elvetici. Pronti, via e le proverbiali rotazioni sulla catena sinistra predisposte da Yakin liberano al tiro in veste di “terzo uomo” l’attaccante di origini dominicane. Che deprime definitivamente lo stato d’animo dell’Italia. Né le convulse sostituzioni di Spalletti provvedono a invertire il trend. Latita la reazione fisica e mentale di tutti, comparse e presunti protagonisti. Evidente che la Nazionale fatichi a trovare spazi e interpreti adeguati. Il goffo colpo di testa all’indietro con cui Schär attenta all’autogol ed il palo di Scamacca avrebbero potuto riaprirla. Ma è pretestuoso immaginare che fossimo in partita dopo il secondo gol.   

In conclusione, dopo un’intera partita di sofferenza, senza riuscire a trovare nemmeno un guizzo, gli Azzurri tirano finalmente un sospiro. Ovviamente, di rassegnazione e non di sollievo. Al triplice fischio di Szymon Marciniak, l’arbitro polacco della finale Mondiale Argentina-Francia, permane forte la sensazione di dover necessariamente sopravvivere all’inferno in Patria che genererà l’eliminazione.

Allora torniamo da Berlino, stesso stadio dove l’Italia disputò la finale Mondiale 2006, tra l’altro in virtù dell’iconica rete di Alex Del Piero segnata alla Germania nella semifinale di Dortmund, troppo somigliante al gol di Zaccagni alla Croazia per non immaginare un finale diverso, consapevoli che per qualcuno è la fine ciclo con la maglia azzurra.

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