Nella misura in cui il campionato è ben lungi dall’essere ai titoli di coda, il primo posto in classifica certifica lo status di contender per lo scudetto acquisito in questi primi mesi dal Napoli. Che tuttavia continua a essere incredibilmente sottovalutato. Innegabili i meriti di Antonio Conte nell’accendere la scintilla dell’entusiasmo nello spogliatoio, rigenerando completamente un gruppo in evidente stato confusionale l’anno passato. Una capacità di creare plusvalore col materiale umano a disposizione che rappresenta l’unità di misura del lavoro svolto finora. Gli azzurri sembrano ormai identificati con le idee del tecnico salentino: modello in grado di influenzare concretamente i risultati di inizio di stagione. Al punto da riuscire a trascinare la squadra ben oltre le aspettative estive della società.
Oggi l’allenatore è il centro nevralgico del progetto. Effettivamente, lo stile di gioco dell’Uomo del Salento è diventato il tratto principale della capolista. Un calcio basato sul controllo degli spazi, che sta funzionando con successo in campo, declinando i principi del 4-3-3, interpretato però in maniera parecchio fluida. Restituendo dignità all’efficacia difensiva, pur faticando ancora un pochino nella fase di finalizzazione. Non a caso i partenopei sono seconda difesa meno battuta del campionato, con appena 9 reti subìte in 13 giornate.
E questo, in una Serie A senza padroni assoluti – con l’Inter strafavorita e Atalanta, Fiorentina o Lazio apparentemente assai agguerrite – garantisce comunque al Napoli una certa credibilità, ponendolo sullo stesso livello competitivo della concorrenza. Al là delle valutazioni sul reale valore della rosa a disposizione di Conte rispetto agli organici altrui. Altresì, non trascurando l’incidenza delle Coppe, che il Napoli non ha, ma causano stanchezza tra le big impegnate in Europa.
Non chiamatelo “corto muso”
L’impressione tratta dal match con la Roma è che ci sia qualcosa da limare nell’atteggiamento della squadra, specialmente nella gestione complessiva dei 90’. Serve soprattutto trovare un rimedio agli abbassamenti repentini nella propria trequarti – magari dopo essere passati in vantaggio -, che veicolano una sgradevole sensazione di voler rinunciare a dominare l’avversario in maniera definitiva. Un Napoli in affanno, dunque, con l’atteggiamento collettivo che ne sterilizza la produzione offensiva. Eppure Lukaku, nonostante venga criticato aspramente, ha già messo a segno cinque reti, oltre ad aver arricchito il ruolino di marcia con quattro assist.
Del resto, il centravanti belga non si limita alle sportellate col marcatore diretto. Vero è che talvolta riceve palloni col contagocce. Perciò sembra vagabondare come un assetato nel deserto, a caccia di una goccia d’acqua. Quindi, conseguenza di un dettame tattico che spesso obbliga gli azzurri a rimanere in partita, con la testa ed il cuore. Però senza mai davvero soffrire, vista la straordinaria varietà di soluzioni difensive. Il punto è questo: le “creature” di Conte vivono nell’agonismo, ricercano (addirittura bramano) prestazioni caparbie, di grande carattere. Rese maggiormente incisive dalla incisività del pacchetto arretrato, associata alla solidità della mediana.
Allora, la vittoria sui capitolini va inquadrata nella sua corretta dimensione. Cioè come una prestazione da squadra pragmatica e matura, consapevole dei propri mezzi, che può legittimamente ambire allo scudetto. Perché sa incidere ed al contempo gestire, ritmi e situazioni di gioco. Una capacità che racconta la straordinaria crescita emotiva di un gruppo che ha imparato a capire i momenti della partita.
Talvolta brutti ma felici lassù
Insomma, il Napoli è l’elogio di un calcio che viaggia su un equilibrio sottile, costantemente in bilico tra gli sprazzi di fantasia affidati al talento visionario di Kvaratskhelia e la manovra macchinosa per stimolare Big Rom. L’energia di Politano, che alterna dribbling e sterzate a lunghe diagonali di copertura. Oppure gli inserimenti di McTominay, cui fanno da contraltare le corse all’indietro nel ripiegare, sacrificandosi sotto la linea della palla. In tal senso, gli azzurri sono a immagine e somiglianza del loro tecnico.
Prendiamo per esempio l’abnegazione con cui domenica hanno scovato una via alternativa alle geometrie di Lobotka. Tatticamente Ranieri aveva azzeccato la mossa giusta: schermare il pivote slovacco attraverso la pressione congiunta di Dovbyk e Pellegrini. A seconda della posizione della palla, la lettura era sempre orientata a limitare ricezioni pulite al regista. Così, mentre uno lo metteva in ombra, l’altro usciva forte sulla costruzione dei difensori. Disinnescato lo sbocco centrale, gli azzurri hanno creato un mucchio di problemi sulle corsie laterali. Il georgiano approfittava della mancanza di intesa tra Celik ed El Shaarawy, per occupare il corridoio intermedio. Sul versante opposto, i movimenti da “finta mezzala” di Di Lorenzo hanno messo in difficoltà Pisilli, scarsamente propenso a giocare da esterno, ed un Angelino quantomeno svagato.
Queste qualità basteranno per mantenere la vetta? Torino e Lazio risponderanno alla domanda…
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