La storia di Mirko Savini, almeno la finestra relativa alla sua esperienza in maglia Napoli, potrebbe benissimo sovrapporsi al momento che stanno attraversando in questi giorni all’ombra del Vesuvio.
L’attualità, infatti, racconta quanto sia grande l’emergenza sulla fascia sinistra in casa partenopea. Palese la necessità di Mazzarri: chiedere a un centrale di adattarsi fuori ruolo, magari all’interno di un sistema che possa ricalcare la filosofia dell’allenatore toscano, proverbialmente orientato a difendere a tre.
Esordi romani
Le radici di Savini affondano nella Lodigiani, terza realtà romana, con un vivaio floridissimo, specializzata nel conferire il giusto senso al processo formativo, che dal settore giovanile sbarca poi in Prima Squadra, all’epoca in C1. Mirko incarna il volto autentico di chi riesce a compiere il gran salto, rampollo di Salvo D’Adderio, che lo lancia coi “grandi”, concedendogli grande fiducia, nonostante sia poco più che diciottenne.
“Per me una sorta di mentore D’Adderio. Con cui avevo già fatto gli Allievi Nazionali, arrivando alla finale per lo scudetto, persa poi contro il Milan. All’epoca, la Lodigiani era un settore giovanile all’avanguardia, capace di competere al meglio addirittura con Roma e Lazio. Una realtà che credeva molto nei giovani, farli crescere e dopo cederli. Non era mica facile, con i marpioni che a quel tempo giocavano in C, salvarsi. Con D’Adderio lo facemmo passando per i playout contro la Turris. Una esperienza altamente formativa…”.
Là dietro, nel traffico difensivo, sotto l’ala protettrice del lucidissimo senso tattico di Pino La Scala (“Per la categoria era un giocatore davvero importante. Mi ha fatto un po’ da maestro, dandomi spunti su principi fondamentali quali la dedizione e l’applicazione al lavoro…”), che ne protegge l’ascesa senza mai minargli l’equilibrio, trova il suo habitat naturale, annullando qualsiasi ipotetico complesso di inferiorità al cospetto dei “califfi” che militano in Terza Serie. Del resto, gli esordi sembrano già odorare di altre categorie, primo segnale di un percorso professionale che lo porterà ben oltre lo stadio Flaminio.
A facilitarne la scalata verso ben altri lidi, le sapienti mani di Guido Attardi. La Lodigiani si attesta nella middle class della C grazie ad un giusto mix di giovani talentuosissimi (due Scudettini con la Berretti nel volgere di un triennio), tipo Emiliano Moretti, e giocatori ferocemente determinati ad arrivare in alto – Sgrigna, Di Donato, Fabio Lucidi, Francesco Pratali, Luca Vigiani -, che negli anni successivi giocheranno tanto e bene in A e B. Senza dimenticare i gol a grappoli di Luca Toni.
Fermana e Ascoli per crescere
Se alla Lodigiani, attraverso la semplicità di giocate essenziali, Savini si impadronisce delle coordinate del mestiere, le due stagioni successive alla Fermana gli spianano ulteriormente la strada. Metodico e perfezionista in ogni piccolo gesto, capisce che abbinando muscoli e pensiero può veramente cementare una carriera ad alti livelli.
“A Fermo mi volle ancora D’Adderio, evitando in un certo senso, che mi appiattissi. La mia prima esperienza lontano da casa. Un passaggio fondamentale, a livello formativo. Dall’ambiente spensierato e senza pressioni della Lodigiani, venni catapultato in un mondo completamente diverso. Cominciai a capire caratterialmente cosa servisse per adattarsi ad una nuova situazione, calandomi in un contesto con compagni grandi di età; confrontandomi con chi aveva famiglia e magari pure figli…”.
Qualcosa di molto simile a un presagio, nel quale leggere il suo futuro. A quante cose belle gli sarebbero capitate nelle Marche. Nella vicina Ascoli si specchiano orgogliosamente nella promozione in Serie B, che trasformano in romanzo popolare, trionfo di volontà e fatica, aggiungendo a una corposa campagna acquisti pure il cartellino di Savini.
“Inizialmente arrivai ad Ascoli come cambio dei centrali: Tangorra e Barzagli. Partivo quindi in sordina, ma Pillon mi diede quasi subito fiducia. E giocai tanto. Su Barzagli penso sia giusto sottolineare la sua grande cultura del lavoro. Era forte, ma col tempo e la dedizione, ha raggiunto quei risultati importantissimi che sono sotto gli occhi di tutti…”.
Mirko va a lezione da Bepi Pillon, capace di costruire un gruppo che mira alla salvezza, dove ogni pallone ha in sé una sfumatura di speranza, il promettente anelito di rimanere in cadetteria, puntualmente conquistato al termine del campionato, assieme a compagni di squadra “speciali”.
“Facevamo un po’ fatica fuori casa, ma in casa non ce n’era per nessuno. Ascoli è una piazza calorosa. E poi praticavamo un buon calcio: 4-2-3-1 propositivo, con Brienza a sostegno dell’unica punta, Sasà Bruno…”.
Andando indietro con la memoria, l’attitudine a lasciare ovunque tracce indelebili, diventa stralcio di un entusiasmante percorso.
“Dopo cinque anni di Serie C, Ascoli mi aveva dato l’opportunità di confermarmi ad un livello superiore, dando continuità alle mie prestazioni ed al buon rendimento”.
Viola grande opportunità
L’annata seguente comincia ancora in bianconero (“Il nuovo mister, Dominissini, mi stava impostando da terzino sinistro e stavo comunque facendo bene…”). Ma nella geografia sentimentale di Savini la bellezza del suo viaggio pedatorio risiede proprio nelle tante tappe vissute alla stregua di un nomade. Voglioso di sperimentare e rimettersi continuamente in discussione, a gennaio accetta la chiamata della Fiorentina.
“Il diesse Lucchesi stravolse la rosa, prendendo al mercato di riparazione una decina di nuovi giocatori. Tra cui me e Gaetano Fontana, proprio dall’Ascoli…”.
I toscani avevano stracciato la C2, ma furono ammessi direttamente in una cadetteria allargata a ben 24 squadre, conseguenza del “caso Catania”. Un girone di andata alquanto contraddittorio determinò il licenziamento di Cavasin, sostituito da Mondonico.
“Ricordo una concomitanza di eventi. La sconfitta con la Triestina provocò l’esonero di Cavasin. In quella occasione mi infortunai al collaterale e stetti fuori un mese. Rientrai col Palermo e vincemmo. Da lì in avanti, giocai sempre. Inoltre, la squadra infilò una striscia di vittorie consecutive, che ci rilanciarono…”.
Partita dopo partita la Viola trova spontaneamente la gioia di vincere, e risalire in classifica. La rincorsa culmina con il sesto posto, utile per accedere allo spareggio contro il Perugia (“Che grande emozione il Curi stracolmo di tifosi viola festanti…”), che permise ai gigliati di ritornare in A.
Talmente solido, il “Mondo”, da divulgare il suo stile sobrio e autorevole pure al piano di sopra.
“Allenatore carismatico, con letture importanti durante la gara, ma anche grande preparazione durante la settimana nell’avvicinarsi alla partita. Negli allenamenti, per esempio, anche se dava l’impressione di guardare altrove, con piccoli accorgimenti o suggerimenti, ti faceva capire che aveva tutto sotto controllo, tutt’altro che distratto…”.
Anche se i risultati, l’anno dopo, travalicando il concetto di riconoscenza, e lo mettono alle corde. Paga con l’esonero un avvio di campionato claudicante. Del resto, sono queste le fondamenta su cui poggia il mestiere dell’allenatore. Senza mai vacillare Mirko non smette di applicarsi sia con Sergio Buso che con Dino Zoff. Consapevole che ogni caduta dolorosa contiene già i germogli della risalita, basta solamente saper cogliere l’opportunità e coltivarla.
“Ci salvammo all’ultima giornata, un’annata tribolata, condizionata fortemente dai tre cambi in panchina. Nonostante fossimo un gruppo forte, con Miccoli, Maresca, Nakata: tutti compagni carismatici, di personalità. Per me era la prima occasione della carriera in cui giocai di meno. Ma anche stare talvolta in panchina è servito a farmi sopportare, accettando serenamente certe scelte tecniche…”.
Quando l’arrivo di Prandelli sulla panchina viola lo mette un po’ in disparte rispetto agli attori principali, Pierpaolo Marino gli suggerisce la via di fuga più giusta, facendogli balenare sotto gli occhi un progetto ambizioso e stimolante. Realizzare il riscatto di un’intera città: Napoli.
Napoli, passione C1
Una scommessa stravinta, accettare il declassamento, un doppio passo del gambero, dalla A alla C1. Savini si lascia dolcemente sedurre dal diesse. C’è una ferita dolorosa da ricucire, sottrarsi al limbo del post fallimento. Issare nuovamente la passione dei tifosi azzurri, momentaneamente cancellata dai debiti, nella massima categoria. E dopo, proteggerla con carisma e caparbietà.
“Accettai subito, sapevo che la proprietà voleva fare grandi cose. Volevo mettermi alla prova in un ambiente che vive la passione per il calcio in maniera viscerale. Un amore puro come poche altre tifoserie per la propria squadra…”.
Riavvolgendo il nastro dei ricordi, appare evidente quanto la carriera di Savini cambi radicalmente con Edy Reja. Il tecnico goriziano lo trasforma in un solido “quinto”, nella squadra in grado di scalare la piramide dell’Inferno, che partendo dalla Lega Pro arriva in A, non senza qualche fatica.
Mettere un terzino sinistro naturale in una posizione che non gli appartiene potrebbe apparire un azzardo. Invece Mirko diventa un ottimo laterale, seppur atipico. Insegue chiunque transiti dalle sue parti, veicolando nei tifosi azzurri la piacevole sensazione che per lui, muoversi in ampiezza piuttosto che lottare centralmente, non faccia sostanzialmente differenza.
“Forse inizialmente il 3-5-2 era poco adatto alle mie caratteristiche. Io da un lato e Gianluca Grava dall’altro, che facevamo gli esterni: in pratica, un centrale ed un terzino, che ci muovevamo a tutta fascia. Probabilmente, Reja vedeva in noi i giocatori capaci di garantire equilibrio nelle due fasi…”.
Ecco perché le sue caratteristiche si sposano così bene con la filosofia di quel Napoli (Soccer…). Il tocco sciamanico di Reja, le sue intuizioni a getto continuo, obbligano il gruppo a un atto di fede, convertendo giovani talenti e carneadi incompresi in una macchina quasi perfetta.
“Non è mai facile vincere, anche se sei il Napoli, ma quell’anno l’obiettivo era la promozione in B e nessuno poteva togliercelo. Peccato solo per il mio infortunio. La rottura del metatarso mi tenne fuori un bel po’ di mesi. Neanche il tempo di rientrare, ed a Martina mi ruppi di nuovo, ancora il metatarso. Unica consolazione, passai un mucchio di tempo nel centro del dottor De Nicola, dove ebbi modo di consolidare il rapporto con Piá, infortunato pure lui…”.
Napoli, amore per la B
Napoli è la dimensione ideale per fare calcio in un ambiente dallo straordinario spirito identitario. Nulla di astratto, la napoletanità, un sentimento scolpito nel porfido, alla stregua dei cazzimbocchi: ovvero, i sanpietrini utilizzati per pavimentare molte strade della città.
Quel gruppo percepisce la responsabilità di riportare gli azzurri nel calcio di vertice. In Serie B esprime un gioco essenziale. Alcuni accettano con umiltà il loro destino: correre e portare la palla a quelli più bravi là davanti. Una strategia decisiva per vincere anche il campionato cadetto.
“Magari eravamo una squadra poco spettacolare. Ma vincere quel campionato non era affatto scontato, con Juve e Genoa. Il gioco di Reja poteva piacere o non piacere. Con tre centrali bloccati, io e Grava sui lati. Oggi che alleno vedo le cose in maniera diversa. Sono un sostenitore del bel gioco. Ma la strada per arrivare al risultato può essere anche diversa. Il mister è un grosso gestore di spogliatoi come quello del Napoli, ricco di forti personalità. Tutti volevano giocare, dare una mano. Non è stato sempre semplice. Lui ci è riuscito con concretezza e pragmatismo…”.
Una bella favola, con annesso scontato lieto fine: il 10 giugno un pareggio a reti inviolate nel calderone ribollente di Marassi sancisce la promozione a braccetto di Genoa e Napoli.
“Quando atterrammo a Capodichino c’era l’inferno, talmente tanti erano i tifosi che ci attendevano. Girammo la città in pullman, col traffico bloccato. Ricordo una scena meravigliosa, che testimonia l’amore della gente. Un signore con un ragazzino che ci seguivano in scooter. Ogni qual volta ci fermavamo, il padre faceva salire il ragazzino sulle pensiline delle fermate degli autobus, per farci salutare. Così per tutto il tragitto, fino a Posillipo. Poi la festa da Rosiello. Insomma, andammo a dormire alle cinque del mattino, distrutti e sfiniti”.
Finalmente in A sotto al Vesuvio
Il Napoli e Savini arrivano lassù senza mai atteggiarsi. Addirittura, infastidiscono le “Big”, terremotando il “Sistema”.
“Oggi chi sale dalla B fa fatica. Noi invece, da neopromossa, ci classificammo all’ottavo posto. Eravamo un gruppo ben assortito, con giocatori giovani, che avevano voglia di emergere. Infatti, poi s’è vista la carriera che hanno fatto i vari Hamsik, Lavezzi o Gargano. Al di là del valore calcistico, uomini con cui condividere un mucchio di cose. Prendi il Pocho, per esempio: sempre sorridente, positivo, mai una parola che non fosse utile al gruppo, nonostante in squadra avessimo anche giocatori più grandi di lui…”.
Insomma, sembra che vada tutto a meraviglia. Invece qualcosa nel rapporto con la società si incrina. Mirko chiude e saluta, congedandosi dalla maglia azzurra.
“Col senno di poi, un errore che non rifarei. Avevo trent’anni, ero stufo dei sei mesi passati fuori rosa. Oggi reagirei diversamente”.
Fine corsa, Palermo e Grecia
L’ultimo ballo, la classica linea tracciata alla fine dei giochi, si dipana tra Palermo e la Grecia. Savini vola al Paok Salonicco, senza voltarsi indietro.
“Esperienza fondamentale, come arricchimento umano e culturale. La voglia di aprirsi a un nuovo calcio, a metodologie diverse. Ma anche per scoprire mentalmente che c’è dell’altro. Prima immaginavo che tutto ruotasse intorno all’Italia. Pensa che appena arrivai, ero in scadenza di contratto, convinto dal loro diesse, Vryzas, mio ex compagno alla Fiorentina, l’allenatore, Fernando Santos (poi Commissario Tecnico del Portogallo Campione d’Europa 2016, n.d.a.) parlava portoghese, mentre il traduttore solo greco. Volevo scappare. Quindi, ho scoperto un mucchio di cose nuove!”.
A quel punto, Mirko dice basta, producendosi nel migliore inchino possibile: nel suo percorso ha cambiato qualche squadra, attraversando un mucchio di situazioni. Talvolta rinnovandosi, per adeguare le sue competenze alle richieste dell’allenatore, senza tuttavia cambiare mai la prospettiva da cui guardare il calcio. E l’umanità che vi ruota intorno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
RESTA AGGIORNATO SUL NAPOLI: