Per otto anni Cristiano Giuntoli è stato il diesse del Napoli, rappresentando i valori della proprietà, braccio operativo di una gestione coerente e funzionale, tesa a coniugare sempre le esigenze tecniche con la mission aziendale. Una necessità, che comunque non ha mai tarpato le ali alle ambizioni del club.

Ecco perchè adesso ci si interroga sulla separazione dal direttore sportivo, appena qualche settimana dopo l’incoronazione popolare. Probabilmente, lo Scudetto non è stato sufficiente a cementare due diverse visioni del calcio. La scelta di Giuntoli nasconde, nemmeno troppo velatamente, una personale interpretazione della vittoria. Senza voler necessariamente cadere nella trappola dei luoghi comuni, pare che il d.s. sia un fervido sostenitore dell’aforisma in voga alla Continassa: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta…”.

Il concetto, ovviamente, non va limitato ai soli trofei. Bensì fa riferimento al patrimonio storico che eredita chiunque accetti di lavorare per la Juventus. Insomma, per Giuntoli, l’idea di riedificare il brand bianconero, rilanciarlo nel gotha dei Top Club, rappresenta un valore intangibile. Un’occasione professionale da non lasciarsi assolutamente scappare, consapevole che contribuire a far rinasce dalle proprie ceneri la Vecchia Signora lo renderebbe un manager (quasi…) intoccabile.

La pazienza sarà una condizione imprescindibile per assolvere a questo compito, Il retaggio del nobile passato non salva il bilancio attuale dei bianconeri, costretti a fare cassa con cessioni illustri o mancati rinnovi. La situazione finanziaria, ormai instabile, con i minori introiti derivanti dalla Champions League sfumata a causa della penalizzazione, suggerisce una politica sostenibile a medio termine. Non stiamo parlando di austerity, però, il progetto prevede una crescita costante e graduale. Non a caso, la Juve ha fatto sottoscrivere a Giuntoli un contratto quinquennale, con l’idea di ripetere la formula vincente realizzata all’ombra del Vesuvio.

Vincere o consolidarsi

Da anni De Laurentiis sostiene un concetto che magari fa storcere la bocca ai nostalgici, legati in maniera indissolubile alla figura del presidente-mecenate in voga negli anni ’80: vincere è uno strumento. Il vero obiettivo, tuttavia, è radicarsi all’interno del “Sistema”. Come se la Serie A fosse una sorta di NBA, diventa quindi fondamentale coniugare l’entertainment calcistico e lo show business con le cose di campo.

E se non assumi una posizione economicamente stabile, rimane poi complicato sopravvivere in un contesto cannibalizzato dai petrodollari russi ed arabi, oppure dalle multinazionali cinesi o statunitensi.

Innegabile che in questo scenario il Napoli sia riuscito ad attrarre alcuni tra i migliori talenti in circolazione. E dopo, goderseli per un certo periodo della loro carriera. Nondimeno, era impensabile immaginare di poter resistere all’infinito ai tentativi di razzia perpetrati da Premier o Bundesliga. Un problema di tipo strutturale, che afferisce l’italico pallone nella sua globalità, diventato una succursale da depredare. Perchè sono gli stessi calciatori (o i loro agenti…) a vedere il nostro campionato come un semplice trampolino di lancio, per proiettarsi successivamente verso Inghilterra o Germania.  

In realtà, la suggestione per cui Giuntoli sia l’architetto delle fortune del Napoli, al pari del racconto mitologico che sosteneva la centralità di Pierpaolo Marino nella ricostruzione azzurra post fallimento, è formalmente inesatta.

Ambizioni moderate

La verità è che in questa estate non sta succedendo niente di nuovo rispetto a quanto accadde all’atto del divorzio con Marino. Perfettamente sovrapponibile la situazione, nonchè la risposta del presidente partenopeo.

Al netto di uno Scudetto storico, conquistato dominando letteralmente la concorrenza, gli equilibri ed i rapporti di forza non sono affatto mutati. Dunque, i calciatori continuano a lasciarsi sedurre dalle sirene di mercato sulla scorta di una mera convenienza economica. Numeri alla mano, i soldi (tantissimi…) sono la motivazione alla base della scelta di Kim, che ha preferito il Bayern Monaco.

Bisogna accettarlo, riconoscere la condizione di subalternità al cospetto di chi approfitta dello strapotere finanziario, adeguandosi. De Laurentiis l’ha fatto, mantenendo costantemente la medesima prospettiva strategica. Alimentando in maniera virtuosa la rosa da mettere a disposizione dell’allenatore di turno, esattamente com’è avvenuto quest’anno.

Potremmo definirla anche una “ambizione di secondo livello”. Nondimeno, fino a quando le Istituzioni sportive e la Politica continueranno nel loro immobilismo, è l’unica strada percorribile per provare a colmare il gap, tentando strenuamente di mantenere la giusta distanza dall’élite europea.

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