La storia di Alessandro Renica merita di essere raccontata. E’ quella del terzino minimalista che si converte in libero. Icona di un quinquennio capace di inondare di luce l’ombra proiettata dal Vesuvio sulla città.
“Un’impresa titanica vincere a Napoli. La fatica che abbiamo fatto per raggiungere certi traguardi, nonostante fossimo consapevoli della nostra forza, è inimmaginabile”.
La certezza di momenti impossibili da riprodurre. Con gli struggimenti del caso, annessi e connessi.
“Specialmente l’anno del primo Scudetto, sembrava che l’obiettivo non arrivasse mai. Più ci avvicinavamo alla fine, e c’era sempre qualcuno che magari tentava di strumentalizzare, alla ricerca di un ipotetico colpevole. Come, per esempio, in occasione della sconfitta di Verona per 3-0, che fece accorciare la distanza a Juve e Inter”.
Libero con ispirazione, terzino per necessità
Per scelta, Alessandro volle fortemente voltare pagina, dopo aver assaporato il piacere della vittoria. Rinunciando ai trionfi della nascente epopea blucerchiata.
“Ho avuto la fortuna di vincere in due città di mare. Ma soprattutto, di farlo in contesti dove il calcio è sentito in maniera particolare”.
Anche a causa di un equivoco sulla posizione da occupare in campo.
“Bersellini a metà stagione decise di cambiare, passando a zona. Con Luca Pellegrini centrale, mi cambiò di ruolo. Da terzino mi piaceva molto propormi in attacco, un po’ meno quando dovevo correre all’indietro per difendere in fascia. Onestamente, mi ispirava maggiormente giocare da libero. Sentivo che ero nato per occupare quella posizione”.
D’altronde, non poteva essere diversamente, per un prodotto del settore giovanile del Vicenza. Renica, infatti, è cresciuto guardando da vicino Giorgio Carrera, registra arretrato piuttosto che libero tradizionale della “favola Lanerossi”. Nella stagione 1977-79 quella squadra ottenne, da neopromossa, un sorprendente secondo posto alle spalle della Juve.
Fare la Storia a Napoli
Renica sbarca Nel Golfo di Partenope con la nomea di chi disegna traiettorie concepite per esplorare la profondità. Senza stress, come se fosse naturale fondere assieme precisione e potenza.
“Interpretavo il ruolo in chiave moderna. Nel senso che mi piaceva impostare da dietro, uscire in conduzione palla al piede. Fusi fu preso proprio perché aveva determinate caratteristiche, per cui poteva coprire pure le mie avanzate”.
Malinconico epilogo sampdoriano a parte, accettare Napoli ha rappresentato per Alessandro una sfida a sé stesso: far parte, a pieno titolo, di una squadra fortemente intenzionata ad aprire una dinastia.
“Destino, ma anche fortuna, passare dalla Sampdoria al Napoli. Mi sentivo attratto dalla nuova esperienza per tre motivi. Innanzitutto, l’opportunità di poter giocare con Maradona. Poi il pubblico del San Paolo. Ogni volta che venivo a giocarci da avversario mi accorgevo di quanto fosse numeroso, caldo e appassionato. Inoltre mi affascinava la città. Avevo avuto modo di notarla di sera, nei ritiri prepartita con la Doria”.
Come se non bastassero i trofei conquistati in sequenza o perduti sul filo di lana per rivendicare una legittima appartenenza al ristretto alveo degli eroi della Seria A targata anni ’90, Renica vola con i ricordi a quegli anni stupendi.
“Quello era un gruppo granitico. Vinceva ed il risultato è importante. Soprattutto per il morale all’interno dello spogliatoio. Ti convinci che stai facendo bene, della bontà del lavoro quotidiano e quindi cresce l’autostima”.
Parole che incuriosiscono non poco, calamitando interesse.
“Oggi marcare pare che sia diventato un optional. Con le regole attuali, gli avversari di quel Napoli giocherebbero sempre in inferiorità numerica. Offrivamo un gran calcio. Tutt’altro che speculare o conservativo. Due marcatori arcigni come Ferrario e Bruscolotti. Con me in copertura. Ed un terzino fluidificante che andava a tutta fascia. Oggi si parlerebbe di zona mista”.
Quanto fu determinante Bianchi
La dolce ossessione di quei giocatori che accettarono di sfidare le leggi non scritte dell’italico pallone, con la chiara intenzione di segnare un’epoca. Rispondendo alle attese di un intero popolo, trovarono corrispondenza nell’uomo che li guidava dalla panchina.
“Ottavio Bianchi era bravo a farci leggere le mille situazioni che potevano verificarsi in gara. Costringendoci ad adattarci continuamente. Ovviamente, non provavamo specifiche situazioni di gioco. Altro che gli undici contro zero, che oggi vanno tanto di moda. Senza alcun avversario con cui confrontarsi. Nelle partitine del giovedì al Centro Paradiso era un continuo difesa titolare, opposta a quel centrocampo e attacco stellare. Dovevi affrontarli e imparare ad adattarti a marcare qualsiasi tipo di giocatore offensuivo”.
Pur non volendo mai ergersi a protagonista, il silenzioso lavoro dell’allenatore fa da cornice alla formidabile rivoluzione condotta dal Napoli de El Diez.
“Oggigiorno ci sono allenatori che ti fanno sognare per le geometrie che sviluppano le loro squadre. Ma non si preoccupano di curare quei piccoli dettagli, per cui poi gli avversari potrebbero farti male. Tipo, farsi trovare impreparati a scappare su situazione di palla libera, piuttosto che utilizzare la linea a quattro contro chi schiera un solo attaccante”.
La leggendaria ritrosia di Bianchi si è dovuta, suo malgrado, arrendersi alla sacralità di un evento, che ha catapultato lui e la squadra in odore di santità.
“Il Mister dedicava una cura minuziosa alle palle inattive. Altro che il concetto di castello, di cui oggi tutti abusano. Quel Napoli non prendeva mai gol da punizioni o angoli a sfavore. Alcuni di noi marcavano a uomo, curando gli avversari più pericolosi. Altri si predisponevano a copertura delle zone da cui potevano scaturire potenziali pericoli”.
Mantovani, Ferlaino e Allodi
Ci sono personaggi che segnano una vita. Seppur con diverse modalità e conseguenze. Lo sa bene Alessandro, che ha avuto la possibilità di incontrare sul suo cammino proprietari e dirigenti di assoluto spessore.
“Dal punto di vista dei rapporti personali, Paolo Mantovani era molto affettuoso. Trattata i giocatori come fossero figli suoi. Calcisticamente parlando, credeva in un progetto preciso. Ovvero, prendere giovani calciatori di qualità, da far crescere e maturare. Ha investito molto per realizzarlo. Fino a vincere lo Scudetto e sfiorare la Coppa dei Campioni”.
Un simbolo romantico, il presidente della Sampdoria. Figlio del campionato italiano di quel tempo, come del resto Corrado Ferlaino.
“L’Ingegnere aveva un atteggiamento più distaccato. Estremamente razionale. Eppure, ebbe il coraggio di prendere Diego. E dopo, supportarlo con grandi investimenti sul mercato. Affidando la costruzione della squadra ad un vero e proprio architetto come Italo Allodi”.
A questo punto, il racconto di Renica conferma come il destino, talvolta, si dimostri effimero.
“Allodi era un dirigente con grande competenza. Amabile come persona. Peccato che l’esperienza con lui fu troppo breve”.
Quello che i testimoni non dicono, lo riporta la fredda cronaca. Nella primavera ‘86 il Direttore era stato coinvolto nella seconda, lacerante puntata, dello scandalo scommesse. Ne uscì scagionato, sia in primo grado che in appello. In ogni caso, segnato e stravolto. Non pochi attribuiscono alla vicenda il trauma che il 12 gennaio 1987 gli costò un ictus.
Poche ore prima, il “suo” Napoli aveva festeggiato il titolo di campione d’inverno, prologo alla conquista del primo Scudetto della sua storia…
Compagni e avversari di spessore
Alessandro è un fiume in piena, ricorda con piacere un vasto campionario di succose suggestioni legate a compagni ed avversari, in grado di fare da spot per le generazioni future.
“Probabilmente Giordano è l’attaccante più completo tra quelli che ho visto dal vivo ed ho marcato, per come calciava con entrambi i piedi, dialogava con i compagni e garantiva la profondità. Forse Paolo Rossi era più cinico sotto porta. Ma Bruno era veramente stratosferico”.
E per affermarlo lui, che ha visto praticamente nascere la coppia di gemelli del gol Mancini–Vialli, bisogna credergli.
“Roberto era un trequartista, che all’occorrenza poteva fare la seconda punta. Creativo, imprevedibile, fantasioso nel fornire assistenza ai compagni. Gianluca era il prototipo dell’attaccante moderno. Forte negli ultimi sedici metri, nonché nell’attaccare gli spazi”.
Renica racconta con tranquillità, senza quella nostalgia generata dalla sensazione che niente sarà bello come prima. In particolare, quando si sofferma sui portieri conosciuti nell’esperienza partenopea.
“Rispetto a Giovanni Galli, che stilisticamente era impeccabile, bello a vedersi, Garella era assai pratico. Una dote che considero essenziale per un portiere, che fondamentalmente, deve impedire agli avversari di fare gol. Claudio era bravo a chiudere la porta, coprendo gli spazi. Certe volte, quando in allenamento diceva… adesso non segnate più, diventava insuperabile. Giuliani era un freddo, cosa determinante per un ruolo talmente delicato”.
Renica e la Nazionale
Purtroppo Renica non è riuscito a mettere il suo personalissimo timbro sull’Italia, coma ha fatto, invece, con il Napoli.
“Tre convocazioni con la Nazionale A comunque le ho avute, pur non riuscendo ad esordire. Ma davanti avevo un concorrente del calibro di Franco Baresi. Con Scirea, il miglior interprete del ruolo in Italia. Diciamo che ero in ballottaggio con Tricella per fargli da cambio”.
Andando oltre il modello ideale, ai limiti della perfezione pedatoria, scolpito dal misticismo maradoniano, Alessandro un cruccio generato “dall’altro Azzurro” lo tiene.
“In verità, il rammarico con la maglia dell’Italia è quello dell’Europeo Under 21. Credo che meritassimo davvero di vincerlo”.
Nell’84 l’Italia arriva ai Quarti, dove affronta l’Inghilterra (che vincerà l’Oro). Fino a quel momento, Renica è l’indiscusso padrone della numero sei. Ma a Manchester, inspiegabilmente, Azeglio Vicini lo spedisce in panchina. Morale della favola, l’andata termina 3-1 per i britannici. A tenere in piedi la baracca ci pensa proprio Alessandro, che segna e si mangia pure il raddoppio.
“Al ritorno, a Firenze, vincemmo solo 1-0. Ma fallimmo una caterva di gol. Paolo Monelli nei minuti finali la poteva girare a nostro favore. Un vero peccato…”.
Il calcio non cambia, visto dalla panchina
Il calciatore professionista è un mestiere dove nulla dura per sempre. Lo sa bene Renica, che al termine di un ciclo vincente, se ne va a Verona. Epilogo inevitabile del romanzo, un pochino meno epico nelle pagine che chiudono l’avventura di chi tanto ha dato ai napoletani. Ricevendone in cambio l’amore incondizionato.
Apparentemente distacco, una volta appesi gli scarpini al classico chiodo s’è accomodato in panchina.
“Non vado appresso alle mode. Perché non si inventa niente nel calcio. Chi afferma il contrario fa una forzatura. Non è cambiato tanto rispetto a quando giocavo. Forse c’è una maggiore organizzazione tattica. Una ricerca delle verticalizzazioni condotte a ritmo più alto”.
Senza tuttavia, palesare nessuna arrogante vanità. Lo sanno bene, per esempio, al Trissino, condotto per la prima volta in Serie D, dopo aver letteralmente dominato.
In testa al campionato dalla quinta fino alla trentesima giornata, pressando, costruendo dal basso e stimolando il centravanti a portare per primo pressione alla palla.
Alessandro tiene gli occhi fissi esclusivamente sull’idea di apprendere nuove conoscenze, da veicolare nella nuova vita professionale. Mai alzati sul compromesso che gira intorno alle dinamiche del calcio attuale.
“Anche all’epoca c’erano allenatori che professavano squadra corta e difesa alta. Quando li affrontavamo con il Napoli, la strategia era quella di muoversi in funzione della linea avversaria. Entrando e uscendo dal fuorigioco, per creare spazi da aggredire. Memorabile, in tal senso, la vittoria contro il Milan Campione d’Italia, nella stagione 1988-89”.
Similitudini in chiave Scudetto
Riferimento nemmeno tanto velato a quella che il noto quotidiano sportivo spagnolo Marca ha inserito nell’elenco delle 50 migliori partite della storia del calcio.
Domenica 27 novembre 1988. E’ la settima giornata. A Fuorigrotta va in scena la rivincita di quanto accadde nello stesso impianto pochi mesi prima: il maledettissimo 1° maggio, in cui i rossoneri espugnarono il campo, ipotecando il titolo.
Indimenticabile, in quel 4-1, il gol che sbloccò la partita: Maradona trafisse Galli con un sensazionale pallonetto di testa, attaccando lo spazio profondo mentre la squadra di Sacchi era altissima e cortissima, tutta orientata a mettere in fuorigioco gli avversari.
Il ricordo si porta appresso la irripetibilità di momenti che illuminano una carriera. Nondimeno, le similitudini nel calcio sono costantemente dietro l’angolo, adesso che il Napoli è tornato ad essere altamente competitivo per qualcosa di più sostanzioso del mero piazzamento Champions.
“Anguissa come Romano nell’anno dello Scudetto è un accostamento che farei solamente per la tempistica. Nel senso che Cicco arrivò a gennaio. Il camerunese a pochi giorni dall’inizio del campionato. Eppure sembra davvero che giochi in questo Napoli da sempre. Fabiàn Ruiz mi ricorda Romano, perché è quel centrocampista che mancava, per completare il contesto tecnico-tattico, in grado di dettare i tempi di gioco”.